Molti approdano a un centro zen perché delusi da precedenti esperienze religiose. L’etimologia della parola ‘religione’ è interessante: viene dal latino religare, ‘legare, ricollegare l’uomo agli dèi’.
Che cosa ricolleghiamo? Prima di tutto noi a noi stessi, perché la separazione esiste persino in noi. Poi noi stessi agli altri e a tutte le cose, senzienti e insenzienti. Poi colleghiamo gli altri agli altri. Abbiamo la responsabilità di riunire ciò che è diviso. Dobbiamo ricollegarci al nostro compagno, al lavoro, all’amico, ai figli, a Sri Lanka, al Messico, al mondo, all’universo. Bello, vero? Ma non vediamo la vita in quest’ottica. Ogni vera pratica religiosa deve riscoprire ciò che è già così, deve condurre a vedere la fondamentale unità di tutte le cose, scoprire il nostro vero volto. Rimuovere le barriere tra noi e gli altri, tra noi e le cose, vedendo la natura della barriera.
Una domanda che mi pongono spesso è questa: se l’unità fondamentale è la realtà delle cose, perché non la vediamo? Non si tratta di un’insufficienza di cognizioni scientifiche, ho conosciuto molti fisici che intellettualmente riconoscevano questa realtà ma non ne riflettevano la comprensione nella vita.
La causa principale della barriera, il motivo per cui non vediamo ciò che è, è la paura di essere danneggiati da ciò che ci sembra separato da noi. Ovvio, il corpo va protetto. Se abbiamo scelto per il picnic un bel posto tra i binari, e arriva il treno, è una buona idea spostarsi. È necessario prevenire i danni fisici, o curarli. Ma c’è un’enorme differenza tra il danno fisico e il danno immaginario: “Mi ha lasciato”, “Non troverò mai un lavoro”, “La gente è cattiva”… Danni immaginari, come troppo spesso immaginiamo che gli altri ci abbiano fatto del male.
Se guardo indietro, trovo una sfilza di persone che mi hanno danneggiato. Tutti avete la vostra lista. Questo condiziona il nostro modo di vedere la vita: sviluppiamo modelli di fuga, elaboriamo giudizi e preconcetti su qualcosa o qualcuno da cui temiamo di essere danneggiati.
L’intelligenza viene indirizzata verso strategie di fuga, verso atteggiamenti vittimistici o modalità di controllo delle situazioni. In questo modo la realtà della vita, la sua unità fondamentale, ci sfugge. È triste, ma molti muoiono senza avere vissuto, troppo impegnati nello sforzo di ripararsi dai possibili danni. Di una cosa siamo certi: una volta feriti, non vogliamo che succeda un’altra volta. E i meccanismi che mettiamo in atto sono infiniti.
In molte tradizioni religiose, e soprattutto nello Zen, si investe molto sull’avere ‘aperture’, o esperienze di illuminazione. Sono esperienze di vario genere ma, se genuine, illuminano ciò che è sempre: la vera natura della vita, la sua unità fondamentale. A me è parso (e a molti di voi è accaduto lo stesso) che non siano sufficienti. Sono utili ma, se le teniamo strette, si trasformano in una barriera. Per alcuni sono esperienze abbastanza naturali, e le diverse modalità non dipendono certo dalla virtù di ognuno. Se però manca un serio lavoro per unificare la propria vita, lasciano un po’ il tempo che trovano. Ciò che conta è scendere, volta per volta, in ciò che è sentito come una minaccia, un possibile danno o uno svantaggio, con tutte le difficoltà di applicare questa pratica ai colleghi di lavoro, ai familiari, al compagno e a chiunque. Se non abbiamo abbassato la soglia di reazione, anche un’esperienza illuminante è di scarsa utilità.
Per vedere l’unità fondamentale, non solo saltuariamente ma sempre (e questa è la vera vita religiosa), la pratica deve lavorare con quella che Menzan Zenji, studioso e insegnante di Soto Zen, chiama la ‘barriera del pensiero emotivo’. Appena qualcosa ci minaccia, reagiamo alzando immediatamente la barriera, che altrettanto immediatamente impedisce la visione. Poiché reagiamo ogni cinque minuti, la visuale è sempre bloccata. Siamo imprigionati nella barriera, imprigionati nell’io.
Quindi, il lavoro primario è con la barriera. Senza questa pratica, senza esaminare tutte le barriere che noi stessi alziamo (e non è facile), restiamo esclusi e separati. Anche se abbiamo un bagliore fugace del nostro vero volto, non sappiamo essere noi stessi attimo per attimo. In altre parole, non viviamo ancora la vita religiosa: uomo e dèi restano separati. Qui ci sono io e là c’è la vita: la sento minacciosa e non ci riunifichiamo.
La barriera del pensiero emotivo si esprime spesso come oscillazione tra due poli. Un polo è il conformismo religioso: sacrificare agli dèi, sacrificare noi stessi, ottemperare alla vita, servire gli altri, essere buoni, sforzarsi verso la perfezione, reprimere ciò che ci sembra vero in una certa situazione. È la modalità di chi cerca di essere buono, cerca di praticare molto, cerca l’illuminazione, cerca, cerca, cerca. Si tratta di uno sforzo molto comune, specie tra gli studenti zen. Poi può darsi che la pratica ci faccia vedere il conformismo in cui sguazziamo e vogliamo schizzare verso il polo opposto: la ribellione, il non conformismo, che è un’altra forma di imprigionamento. Pensiamo: “Nessuno deve dirmi cosa fare! Voglio il mio spazio, e nessuno ci deve entrare”. In questa fase giudichiamo male gli altri e ne abbiamo opinioni negative. Passiamo da una visione di noi stessi di inferiorità e dipendenza a un’altra di superiorità e indipendenza. I due poli (conformismo e ribellione) trapassano continuamente l’uno nell’altro. Molti, durante i primi anni di pratica, saltano rapidamente dal primo al secondo ma il risultato è che la loro vita, invece di migliorare, sembra peggiorata. “Dov’è andata la persona gentile che ero una volta?”. Tutti e due sono imprigionamenti, perché in entrambi i casi stiamo ancora reagendo alla vita. Conformismo e ribellione hanno la stessa matrice. E uomini e dèi sono ancora divisi.
Oscilliamo tra i due poli. La settimana scorsa, alle nove del mattino decisi di rispondere a una lettera molto problematica; alle tre del pomeriggio mi accorsi che non avevo ancora preso in mano la penna. Dalle nove alle tre avevo trovato diecimila cose da fare, che mi impedivano di scriverla. La mia reazione iniziale era stata: “Devo rispondere a quella lettera”: conformismo. “Devo farlo, è mio obbligo”. La seconda reazione: “Tu non mi comandi, non sono costretta a farlo, ti lascio lì”. Nel momento in cui l’osservatore vede entrambe le reazioni, cosa succede? Prendo la penna e rispondo.
Qual è la soluzione? Che cosa mette fine alla battaglia interiore? Che cosa ci ricollega agli dèi? Fino a che non risolviamo l’enigma ci dobbiamo sguazzare. Per prima cosa dobbiamo vedere ciò che stiamo facendo, e si rivela nella seduta. La prima reazione è: “Devo farlo”. Continuando a sedere, assistiamo alla nascita della seconda reazione: “Non voglio”. Vediamo il nostro tentennare avanti e indietro, avanti e indietro.
Questa dinamica dell’avanti e indietro è separazione. Come risolverla? Sperimentando ciò che non vogliamo sperimentare. Dobbiamo fare l’esperienza non verbale del disagio, della rabbia, della paura che si nasconde dietro le oscillazioni. Questo è vero zazen, vera preghiera, vera pratica religiosa. Alla lunga la rabbia, la sua esperienza fisica, incomincia a sciogliersi. Se è vera rabbia, ci può mettere settimane o mesi. Ma se riusciamo ad abbandonarci totalmente all’esperienza, se ‘abbracciamo la tigre’, lo scioglimento è indubbio perché, se non siamo separati dall’esperienza, non c’è divisione tra soggetto e oggetto. Quando non c’è soggetto e oggetto, la barriera del pensiero emotivo cade e per la prima volta vediamo con chiarezza. Se vediamo, sappiamo anche cosa fare. E l’azione sarà amorevole e compassionevole. Vivremo la vita religiosa.
Finché non saremo aperti e amorevoli, la pratica è lì che ci aspetta. Dato che, solitamente, non lo siamo, solitamente dobbiamo praticare con molta cura. Questa è la vita religiosa, la ‘religione’, anche se non occorre usare queste parole. È la riconciliazione tra l’uomo e i suoi concetti, i suoi punti di vista, le sue aspettative e le sue paure. La riconciliazione di queste separazioni è l’esperienza di che cosa? Di Dio? Di ciò che è? Attimo dopo attimo, la vita religiosa è un processo di riconciliazione.
Ogni volta che la barriera cade qualcosa in noi cambia. Col tempo diventiamo meno separati. Non è facile, perché vogliamo restare aggrappati al familiare: all’essere separati, al sentirci superiori o inferiori, ‘qualcuno’ in opposizione al mondo. Un segnale della bontà della pratica è l’attenzione alla nascita di ogni moto separativo. Non appena sorge anche un giudizio casuale su un’altra persona, la spia rossa della pratica deve accendersi.
Tutti compiamo azioni dannose senza esserne coscienti. Più pratichiamo e più ci accorgiamo di ciò che non vedevamo. Non significa vedere tutto, ci sono sempre zone buie. E non è né buono né cattivo: è la natura delle cose.
La pratica non si riduce dunque al venire alle sesshin o alla seduta quotidiana. Sono cose importanti, ma non bastano. La forza della pratica, e la capacità di comunicarla agli altri, sta nell’essere noi stessi. Non dobbiamo cercare di insegnare, non dobbiamo descriverla a parole. Se è forte, la pratica si manifesta in ogni situazione. Non c’è bisogno di parlare del dharma: il dharma è semplicemente ciò che siamo.
[ Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“ ]
– Charlotte Joko Beck (macrolibrarsi)
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– https://en.wikipedia.org/wiki/Joko_Beck