Fin da piccoli ci siamo adeguati a un certo gioco sociale, che impone di non commettere errori, di fare la cosa giusta, di tenere un certo comportamento appropriato qui e un altro lì, e così via. Questo concetto si attacca profondamente a noi, nel senso che è difficile lasciarcelo alle spalle da adulti. Allo stesso modo, crediamo ancora nel gioco infantile secondo cui esistono tre tipi di persone: chi sta in alto, chi sta nel mezzo e chi sta in basso. Tutti vogliono essere nel gruppo che sta in alto: vivere nei quartieri eleganti, avere una bella macchina, la moquette in ogni stanza, il prato di casa ben curato e questo genere di cose. Nessuno vuole essere nel gruppo di coloro che stanno in basso e vivono nella zona del porto, hanno la barba lunga, indossano i blue jeans e fumano marijuana. La maggior parte di noi si colloca da qualche parte nel mezzo e cerca sempre di salire più in alto, senza mai rendersi conto che l’alto necessita il basso, e viceversa.
Questo gioco competitivo si rivela anche con altre modalità, rappresentate da concetti quali: io sono più forte di te; io sono più intelligente di te; io sono più amorevole di te; io sono più tollerante di te; io sono più sofisticato di te, e così via. A prescindere dalla sua tipologia, il gioco dello status sociale è in continuo svolgimento. Diciamo allora che uno studente zen è qualcuno che ha smesso di giocare al gioco del ceto sociale. Il vero significato di essere un monaco non è più quello di cercare di “tenersi al passo coi vicini”. Per diventare un Maestro o una Maestra, l’individuo deve giungere al punto di non imporselo. L’idea di essere migliori di qualcun altro non ha assolutamente alcun senso. È del tutto assurda. Vedete, ciascuno di noi manifesta la meraviglia dell’universo proprio allo stesso modo in cui lo fanno le stelle, l’acqua, il vento e gli animali. Tutti sono al posto giusto e non è possibile che facciano errori, perfino se essi stessi pensano, a modo loro, di commetterli e di praticare una modalità di gioco competitivo.
Perciò, se il gioco inizia ad annoiarvi o a procurarvi problemi e a farvi venire l’ulcera, potreste pensare di lasciarlo perdere e cominciare a interessarvi a qualcosa di simile allo zen. Ma quello è solo un sintomo del fatto che vi state evolvendo in una data direzione. Quando siete stanchi di giocare un certo tipo di gioco, convergete spontaneamente in un’altra direzione, come un albero quando fa spuntare un nuovo ramo. E c’è da augurarsi che lo facciate superando la distinzione fra superiore e inferiore, vale a dire senza pensare: «Ora sono una persona spirituale, che si occupa di questioni più elevate; non sono uno di quegli imbecilli a cui interessano solo la birra e la televisione». Esistono vari modi per vivere la vita, proprio come esistono granchi, ragni, squali, passeri eccetera. Ricordate la poesia che ho citato prima? «I rami fioriti crescono naturalmente, alcuni lunghi, altri corti». Il suo primo verso recita: «Nel paesaggio di primavera non v’è né alto né basso». Che senso ha la superiorità? In termini di processo di crescita la quercia non è migliore della ghianda. La quercia è solo un metodo attuato dalla ghianda per moltiplicarsi.
Perciò diventare degli emarginati, nel senso di non prendere più sul serio il gioco sociale, presenta un vantaggio particolare.
E perfino quando la gente continua a tirarvi dentro affinché giochiate, non avete paura di commettere errori o di fare la cosa sbagliata. In altre parole, cessate di portare nella vostra vita adulta i condizionamenti subiti durante l’infanzia. Predicatori, giudici e insegnanti di ogni tipo assumono verso gli adulti lo stesso atteggiamento che i genitori tengono verso i figli: impartiscono loro delle lezioni su cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. Forse qualche criminale deve ancora crescere, ma si potrebbe dire lo stesso di qualche giudice: per litigare bisogna essere in due. E quando si abbandona il gioco, si può cominciare a pensare in modo nuovo, ossia in termini di polarità anziché di conflittualità, perché non si ha più bisogno di restare impelagati nel pensiero competitivo: buoni contro cattivi, poliziotti contro ladri, capitalisti contro comunisti e altre idee simili, del tutto infantili.
Naturalmente, sto usando un linguaggio di tipo competitivo per evidenziare i limiti del gioco competitivo. Faccio proprio quello che ho appena detto: «Guarda, ho qualcosa da dirti e, se lo capisci, sarai in una posizione di gran lunga migliore rispetto a quella in cui ti trovavi prima di ascoltare ciò che sto per dire». Ma non si può parlare a un determinato gruppo senza usare il linguaggio, i gesti, i costumi e quant’altro di quel gruppo. E i maestri zen cercano di superare la cosa adottando comportamenti strani e imprevedibili che la gente trova del tutto incomprensibili. Quello è il vero motivo per cui lo zen non si può spiegare. Si deve fare un balzo rispetto al gioco di attribuzione di valori (discriminare fra persone migliori e peggiori, fra gruppo sociale in e gruppo sociale out, e così via) e lo si può fare se si comprende che quei fattori sono tutti interdipendenti fra loro. Poniamo allora che io stia parlando con voi e vi dica: «Guardate, ho una cosa molto speciale da dirvi, alla quale dovete assolutamente prestare attenzione». Beh, io sono nel gruppo in e voi nel gruppo out. Ma in realtà non posso pormi nel ruolo di insegnante, a meno che voi non vi poniate in quello di studente o di ascoltatore (il mio status e la mia posizione dipendono interamente da voi). Non è qualcosa che io detengo, e che poi passa a voi: queste cose si svolgono nella reciprocità. Perciò, se voi non ascoltaste quello che ho da dire, io non parlerei. Non saprei cosa dire.
Quindi la rivelazione che le cose vanno insieme consiste in questo; e quando lo capirete e non sarete più in competizione, non commetterete errori, perché non avrete esitazioni. Quando iniziai a studiare pianoforte il mio insegnante mi col piva le dita con una matita ogni volta che suonavo una nota sbagliata. Di conseguenza, non ho mai imparato a leggere la musica: avevo paura di quella matita, perciò esitavo troppo a lungo. Quel genere di dinamica si insinua nella nostra mente. Anche se siamo adulti e non esiste più alcun rischio di essere picchiati o sgridati, nel profondo della nostra psiche udiamo ancora l’eco dei rimproveri di Mamma o delle urla di Papà; e trasmettiamo quegli stessi atteggiamenti ai nostri figli, così la farsa continua. Questo non significa che non dovreste stabilire delle regole con i vostri figli, ma dovreste prevedere in qual che modo di liberarli in seguito, da grandi; intendo dire che dovreste applicare qualche tipo di processo per curarli dagli effetti deleteri dell’educazione. Però non potete farlo a meno di crescere anche voi. A meno di crescere anche noi. Dovrei includere anche me stesso in quest’asserzione.
Quando incontriamo per la prima volta i maestri zen, inizialmente sembrano figure molto autoritarie: si comportano come se fossero dei draghi minacciosi per scoraggiare coloro che non hanno sufficiente determinazione per intraprendere seriamente la pratica. Ma una volta superata questa fase, si verifica un cambiamento molto interessante. Il maestro diventa più come un fratello o una sorella. Si trasforma in un affettuoso aiutante e i suoi studenti lo amano come un fratello, anziché tributargli il rispetto riservato a un genitore. Studenti e maestri si rivolgono reciprocamente delle battute di spirito, intrecciando un tipo di rapporto molto speciale. Pur esibendo tutti i simboli esteriori di un rapporto autoritario, la cerchia ristretta dei suoi membri sa bene che è solo uno scherzo, una messinscena. Vedete, le persone liberate debbono essere molto circospette; altrimenti una società che non crede davvero nell’eguaglianza e che verosimilmente non è in grado di praticarla, considererebbe quel tipo di rapporto alla stregua di una minaccia. Lo vedrebbe come estremamente sovversivo. Perciò i maestri zen indossano tutto quel viola e quell’oro, impugnano scettri e siedono su troni. Il mondo esterno osserva tutto ciò e dice: «Va bene, sono a posto. Dimostrano di possedere ordine e disciplina, quindi dev’essere gente a posto».
[ Da: Alan Watts, “Lo zen e l’arte di imbrogliare la mente“ ]
– Alan W. Watts (macrolibrarsi)
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– https://it.wikipedia.org/wiki/Alan_Watts