Quando la vita è vuota, se si guarda al passato è priva di scopo, se si guarda al futuro, il vuoto è riempito dal presente, di solito ridotto a un capello, a un istante in cui non c’è tempo perché accada qualcosa. Il senso di un presente infinitamente esteso non è mai così vivo come nel cha no yu, la cerimonia del tè. A rigore, il termine significa qualcosa come ‘tè con acqua bollente”, e attraverso quest’unica arte lo zen ha esercitato un’influenza incalcolabile sulla vita giapponese, giacché il chajin, ovvero “uomo del tè”, è arbitro del gusto nelle molte arti sussidiarie che il cha no yu presuppone: architettura, giardinaggio, ceramica, lavorazione del metallo, laccatura, e arte di disporre i fiori (ikebana).
Da quando la cerimonia del tè è diventata un elemento dell’educazione convenzionale di una giovane donna, la si è resa oggetto di molte scempiaggini sentimentali, associandola a pupattole vestite di broccato in stanze rischiarate dalla luna, affannate a fingere i più retorici sentimenti nei riguardi delle porcellane e dei fiori di ciliegio. Ma nell’austera purezza della scuola Sen Sōshu la cerimonia del tè è un’espressione genuina dello zen che non richiede un’apparecchiatura più complicata di una ciotola, un pizzico di tè e un po’ di acqua calda. Se non c’è nemmeno questo, il chado (“la pratica del tè”) può essere praticato in qualunque luogo e con qualsiasi cosa, essendo identico allo zen stesso.
Se il cristianesimo è il vino e l’Islam il caffè, il buddismo è, con assoluta certezza, il tè. Il suo gusto lievemente amaro, che rasserena e chiarifica, gli dona quasi lo stesso carattere del risveglio, mentre l’amarognolo corrisponde alla piacevole ruvidezza del “tessuto grezzo” e al “sentiero di mezzo” fra il dolce e l’aspro. Assai prima dello sviluppo del cha no yu, il tè era usato dai monaci zen come uno stimolante per la meditazione, ed era quindi bevuto in uno stato d’animo di calma consapevolezza, che si prestava naturalmente a un tipo ritualistico di azione. D’estate rinfrescava e d’inverno riscaldava quei vagabondi monaci eremiti che amavano costruire capanne di erba e di bambù nelle foreste montane, o sulla sponda di torrenti rocciosi. Il totale vuoto e semplicità dell’eremitaggio taoista o zen ha stabilito lo stile non soltanto per il particolare tipo di edificio del cha no yu, ma per l’intera architettura domestica giapponese.
La monastica “cerimonia del tè” fu introdotta in Giappone da Eisai, e sebbene differisca formalmente dal presente cha no yu, ne fu nondimeno l’origine, e sembra sia stata adottata per uso laico durante il quindicesimo secolo. In seguito il cha no yu fu perfezionato da Sen-no-Rikyu (1518-1591), e da lui discendono le tre principali scuole del tè ora fiorenti. Il tè da cerimonia non è la comune foglia di tè che viene immersa in acqua calda; è tè verde finemente polverizzato, sciolto in acqua calda per mezzo di un frullino di bambù finché non ne risulti ciò che uno scrittore cinese definì “la spuma della giada liquida”. Il cha no yu è più apprezzato quando è limitato a un piccolo gruppo di convitati, o solo a due persone, ed era particolarmente amato dai samurai del tempo antico, come oggi dagli affannati uomini di affari, quale franca evasione dal turbine del mondo.
L’atmosfera, per quanto formale, è stranamente riposante, e gli ospiti si sentono liberi di conversare o di osservare in silenzio secondo il loro desiderio. Il padrone di casa prepara lentamente un fuoco di carbone di legna, e con una specie di mestolo di bambù versa dell’acqua in una cuccuma squadrata di ferro brunito. Con lo stesso stile formale eppure indolente, egli porta gli altri oggetti necessari: un piatto con qualche pasticcino, la tazza e la scatola del tè, il frullino e un recipiente più grande per gli avanzi. Durante questi preparativi prosegue una casuale conversazione; e presto l’acqua della cuccuma comincia a bollire e a gorgogliare, di modo che gli ospiti fanno silenzio e ascoltano. Poco dopo, il padrone di casa serve il tè agli ospiti, a uno a uno, dalla stessa tazza, prendendone una certa quantità dalla scatola con una canna di bambù curvata a cucchiaio, versando l’acqua dalla cuccuma con il mestolo dal lungo manico, battendolo con il frullino sino a renderlo schiumoso, e ponendo l’unica tazza dinanzi al primo ospite, rivolta verso di lui dalla parte migliore.
Di solito la tazza usata per il cha no yu è di colore smorto, rozzamente rifinita, ricoperta di uno smalto che lascia libera la base — un fortunato difetto che ha sempre offerto opportunità infinite all’”accidente controllato”. Prediletta è la comune tazza da riso coreana, una rustica terraglia contadina da cui i maestri del tè hanno scelto genuini capolavori di forma. Il recipiente per il tè è spesso d’argento opaco o di spessa lacca nera sebbene talvolta siano anche adoperati vecchi vasi da medicinali — semplici oggetti di uso riesumati dai maestri per la loro naturale bellezza. Un recipiente famoso, che una volta andò in pezzi, fu riparato con cemento aureo, e divenne assai più pregiato per la fortuita rete di sottili linee d’oro che ne ricoprì la superficie. Bevuto il tè, gli ospiti possono chiedere di esaminare tutti gli utensili adoperati, poiché ognuno di questi è stato creato o scelto con la massima cura, e spesso esibito per l’occasione a motivo di certe caratteristiche che potessero interessare particolarmente qualcuno degli ospiti.
Ogni accessorio del cha no yu è stato scelto secondo regole di gusto che gli uomini più sensibili in Giappone hanno meditato per secoli. Sebbene la scelta avvenga solitamente per intuito, un’accurata osservazione degli oggetti rivela proporzioni interessanti e inattese: opere di geometria spontanea, notevoli come la conchiglia a spirale del nautilo o la struttura di un cristallo di neve. Architetti, pittori, giardinieri e ogni genere di professionisti hanno lavorato in collaborazione con i maestri del cha no yu, come un’orchestra con il suo direttore, di modo che il loro “gusto zen” è passato negli oggetti di uso quotidiano creati dagli stessi artigiani. Questo gusto è evidente soprattutto nelle cose ordinarie, strumentali: suppellettili da cucina, carta shoji, zuppiere, teiere e tazze comuni, stuoie da pavimento, canestri, vasi e bottiglie, tessuti per gli abiti di ogni giorno, e un centinaio di altri semplici manufatti nei quali i giapponesi uniscono il buon gusto alla massima comodità.
Lo spirito “zen” del cha no yu si manifesta principalmente nel carattere puramente profano del rituale, che non ha natura liturgica come la messa cattolica o le cerimonie elaborate del buddismo Shingon. Sebbene gli ospiti evitino nella loro conversazione argomenti politici, finanziari o commerciali, si ha talvolta una serena discussione su questioni filosofiche, per quanto i soggetti preferiti siano di arte e di natura. Va ricordato che il popolo giapponese ricorre a tali argomenti con la stessa prontezza e spontaneità con la quale noi discorriamo di sport o di viaggi, e che le loro conversazioni sulla bellezza naturale mancano di quell’artificiosità che si potrebbe ritrovare nella nostra cultura. Inoltre, essi non si sentono minimamente colpevoli per questa ammessa “evasione” dalla cosiddetta “realtà” degli affari e della competizione mondana. L’evasione da tali interessi è naturale e necessaria come il sonno, ed essi non provano né compunzione né imbarazzo nell’appartenere per un poco al mondo taoista dei liberi eremiti che vanno in giro per le montagne come nuvole sospinte dal vento, senza aver nulla da fare se non coltivare una fila di legumi, fissare la nebbia che s’addensa, e ascoltare il suono delle cascate. Taluni, forse, scoprono il segreto di congiungere i due mondi, di vedere le “dure realtà” della vita umana identiche all’opera senza scopo del Tao, eguali a un disegno di rami contro il cielo. Come dice Hung Tzu ch’eng:
Se la tua mente non sarà agitata da venti e da onde, vivrai sempre tra montagne azzurre e verdi alberi. Se la tua vera natura possiede la forza creativa della Natura stessa, ovunque tu vada, vedrai i pesci guizzare e le oche svolazzare.
[ Da: Alan Watts, La via dello zen ]
– Alan W. Watts (macrolibrarsi)
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– https://it.wikipedia.org/wiki/Alan_Watts