L’autore ha una idea precisa non di ciò che Dio è, ma di ciò che Dio NON è: ma anche quest’idea cade sotto la sua stessa critica.
Raimundo Panikkar, figlio di padre indiano (e indù) e di madre spagnola (e cattolica), cresciuto in Spagna, è stato l’incarnazione vivente del dialogo interreligioso. Emerito professore di studi religiosi all’università di Santa Monica, in California ha vissuto in un paesino vicino a Barcellona. Tra i suoi libri più importanti ci sono: The Vedic Experience; The Unknown Christ of Hinduism; Myth, Faith, and Hermeneutics; The Trinity and the World’s Religions; Worship and Secular Man; The Silence of God: The Answer of the Buddha; The Cosmotheandric Experience; and Blessed Simplicity. Orbis Books pubblicherà tra poco Gifford Lectures, The Rhythm of Being.
Il testo che segue è il primo capitolo di un nuovo libro.
Scopo dei seguenti nove punti è di contribuire a risolvere un conflitto che lacera molti dei nostri contemporanei. Sembra infatti che molte persone non riescano a risolvere il seguente dilemma: se credere in una caricatura di Dio che altro non è se non una proiezione dei nostri desideri insoddisfatti o non credere assolutamente in nulla e, di conseguenza, nemmeno in se stessi.
A partire almeno da Parmenide in poi, la maggior parte della cultura occidentale si è centrata sull’esperienza-limite dell’Essere e della Pienezza. Una larga parte della cultura orientale, invece, almeno a partire dalle Upanishad, si è centrata sulla coscienza-limite del Nulla e della vacuità. La prima è attratta dal mondo delle cose, in quanto rivelano la trascendenza della Realtà, mentre la seconda è attratta dal mondo del soggetto conoscente, che ci rivela l’impermanenza di quella stessa Realtà. Entrambe si preoccupano di ciò che è “ultimo”, ossia di ciò cui molte tradizioni hanno dato il nome di Dio.
Le nove brevi riflessioni che vi sottopongo non dicono nulla di Dio. Spero con esse, invece, di indicare le circostanze in cui il discorso su Dio può essere adeguato e mostrarsi fruttuoso, anche solo per vivere le nostre vite più pienamente e liberamente. Non le offro come una scusa, ma forse come la più profonda intuizione: non si può parlare di Dio così come si parla delle altre cose.
È importante considerare il fatto che la maggior parte delle tradizioni umane parlano di Dio al vocativo. Dio è un’invocazione.
La mia novemplice riflessione è uno sforzo per formulare nove punti che, mi sembra, dovrebbero essere accettati come la base di un dialogo che la conversazione umana non può più a lungo reprimere, a meno che non accettiamo di essere ridotti ad essere null’altro che robot completamente programmati. A ogni punto ho aggiunto poche frasi, concludendo con una citazione cristiana come esempio.
1. Non si può parlare di Dio senza aver prima raggiunto il silenzio interiore.
Proprio come è necessario fare uso di una macchina Geiger e di matrici matematiche per poter parlare di elettroni con cognizione di causa, così abbiamo bisogno di una purezza di cuore che ci consenta di ascoltare la Realtà senza alcuna interferenza autoriferita. Senza un tale silenzio dei processi mentali non si può elaborare alcun discorso su Dio che non sia riducibile a estrapolazioni mentali.
Questa purezza di cuore è equivalente a ciò che altre tradizioni chiamano Vacuità, ossia il conservarsi aperti alla Realtà, senza preoccupazioni pragmatiche né aspettative da un lato né risentimento o idee preconcette dall’altro. Senza una tale condizione, stiamo solo proiettando le nostre preoccupazioni, buone o cattive che siano. Se cerchiamo Dio per far uso del divino a qualche scopo, stiamo sovvertendo l’ordine della Realtà. “Tu invece, — dice il Vangelo — quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6, 6).
2. Parlare di Dio è un discorso sui generis.
È radicalmente diverso da ogni altro discorso che riguardi ogni altra cosa, perché Dio non è una cosa. Rendere Dio una cosa vuol dire farne un idolo, anche soltanto un idolo della mente.
Se Dio fosse semplicemente una cosa, nascosta o superiore, una proiezione del nostro pensiero, non sarebbe necessario dargli un tale nome. Sarebbe più corretto parlare di un super-uomo, di una super-causa, di una meta-energia o meta-pensiero, non sarebbe necessario chiamarlo Dio. Non sarebbe necessario, allo scopo di immaginare un architetto molto intelligente o un ingegnere estremamente potente usare il termine Dio; sarebbe sufficiente parlare di un super-sconosciuto che sta dietro le cose e che non siamo giunti a conoscere completamente. Questo è il Dio delle lacune, le cui ritirate strategiche ci sono state rivelate nel corso degli ultimi tre secoli. “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio”, dice la Bibbia (Es 20, 7).
3. Il discorso su Dio è un discorso del nostro intero essere.
Non è solo una questione di sensazioni, ragionamenti, di corporeità di filosofia accademica o di teologia. Il discorso su Dio non è la specialità elitaria di alcuna classe. L’esperienza umana, in ogni epoca, ha sempre cercato di esprimere “qualche cosa” di un altro ordine, che è nello stesso tempo alla base e alla fine di tutto ciò che siamo, senza nulla escludere. Dio, se Dio “esiste”, non sta a destra né a sinistra, né sopra né sotto in qualunque senso di queste parole. Pretendere di piazzare Dio al nostro fianco è semplicemente una bestemmia. “Dio non rispetta nessuno”, dice San Giovanni.
4. Non è un discorso su qualunque chiesa, religione o scienza.
Dio non è il monopolio di nessuna tradizione umana, nemmeno di coloro che si definiscono teisti o si considerano religiosi. Ogni discorso tendente a imprigionare Dio in una qualunque dottrina è semplicemente settario.
È perfettamente legittimo definire il campo semantico delle parole, ma non lo è limitare il campo di Dio all’idea che un dato gruppo umano adempie agli scopi di Dio difendendo una concezione settaria. Se esiste “qualcosa” che corrisponde alla parola “Dio” non possiamo confinarla nell’ambito di alcun apartheid.
Dio è il tutto (to pan); anche la Bibbia ebraica lo dice e lo ripetono le scritture cristiane.
5. È un discorso che avviene sempre per mezzo di una credenza.
È impossibile parlare senza un linguaggio. Analogamente non c’è linguaggio che non convogli una qualsiasi credenza. Cionondimeno non dovremmo mai confondere il Dio di cui parliamo col linguaggio delle credenze che dà espressione a Dio. C’è una relazione trascendentale tra il Dio simbolizzato dal linguaggio e ciò che effettivamente diciamo di Dio. Le tradizioni occidentali hanno spesso parlato del mistero, che non significa un enigma o l’ignoto.
Ogni linguaggio è condizionato e legato a una cultura. Per di più ogni linguaggio dipende dal contesto concreto che lo nutre dei suoi significati e dei suoi limiti nello stesso tempo. Abbiamo bisogno di dita, di occhi e magari di un telescopi per localizzare la luna, ma non possiamo identificare la luna con i mezzi di cui facciamo uso per osservarla. È necessario tenere in conto l’intrinseca inadeguatezza di ogni forma di espressione. Per esempio, le prove dell’esistenza di Dio che furono sviluppate dalla filosofia scolastica possono solo dimostrare la non-irrazionalità dell’esistenza divina a coloro che già credono in Dio. Altrimenti essi come potrebbero mai essere in grado di sapere che la prova dimostra quello che cercano?
6. È un discorso su un simbolo, non su un concetto.
Dio non può essere l’oggetto di alcuna conoscenza o di alcuna credenza. Dio è un simbolo che è insieme rivelato e nascosto nello stesso simbolo di cui stiamo parlando. Il simbolo è tale perché simboleggia, non perché viene interpretato. Non c’è ermeneutica possibile per un simbolo perché è esso stesso l’ermeneutica. Ciò di cui ci serviamo allo scopo di interpretare un cosiddetto simbolo è il vero simbolo.
Se il linguaggio è solo uno strumento per designare gli oggetti, non può esserci possibile discorso su Dio. Gli esseri umani non parlano solo per trasmettersi informazioni, ma perché sentono l’intrinseca necessità di parlare: ossia di vivere pienamente partecipando linguisticamente in un dato universo.
“Nessuno ha visto Dio” dice San Giovanni.
7. Il discorso su Dio ha necessariamente molti significati.
Non può essere limitato a uno stretto discorso analogico. Non può avere un “analogato primo” poiché non può esserci una meta-cultura dalla quale sia costituito il discorso, perché essa già sarebbe comunque una cultura. Esistono molti concetti di Dio, ma nessuno lo “concepisce”. Ciò significa che cercare di limitarlo, definirlo o concepirlo è un’impresa contraddittoria e produrrebbe solo una creazione mentale, una creatura.
“Dio è più grande del nostro cuore” dice San Giovanni in una delle sue epistole.
8. Dio non è l’unico simbolo che indichi ciò che la parola “Dio” vuole trasmettere.
Il pluralismo è inerente, in ultima analisi, alla condizione umana. Non possiamo “capire” o significare ciò che la parola “Dio” vuol dire nei termini di una singola prospettiva, nemmeno partendo da un singolo principio di intellegibilità. La stessa parola “Dio” non è necessaria. Ogni tentativo di assolutizzare il simbolo “Dio” distrugge non solo i legami con il mistero (che allora non sarebbe più assoluto, ossia oltre ogni relazione), ma anche con gli uomini e le donne di quelle culture che non sentono la necessità di quel simbolo. Il riconoscimento di Dio procede sempre in tandem con l’esperienza della contingenza umana e della nostra propria contingenza nella conoscenza di Dio.
Il catechismo cristiano riassume questo concetto dicendo che Dio è infinito e incommensurabile.
9. È un discorso che inevitabilmente si completa ancora in un nuovo silenzio.
Un Dio che fosse completamente trascendente, oltre che contraddittorio della speranza, sarebbe superfluo, se non un’ipotesi perversa. Un Dio completamente trascendente negherebbe la divina immanenza e nello stesso tempo distruggerebbe l’umana trascendenza. Il divino mistero è ineffabile e nessun discorso può descriverlo.
È una caratteristica dell’esperienza umana riconoscere di essere limitata, non solo in senso lineare dal futuro, ma anche intrinsecamente dal fondamento che le è dato. Se amore e saggezza, corporeità e temporalità non sono uniti non c’è esperienza. “Dio” è una parola che compiace alcune persone e dispiace ad altre. Questa parola, rompendo il silenzio dell’essere, ci permette di riscoprirlo ancora una volta.
Noi siamo l’ex-sistenza di una “sistenza” che ci permette di prolungarci (nel tempo), estenderci (nello spazio) di essere sostanziali (col resto dell’universo) quando noi in-sistiamo, allo scopo di vivere, nell’andare avanti con la nostra ricerca, resistendo alla viltà e alla frivolezza e sus-sistendo precisamente in quel mistero che molti chiamano Dio e altri preferiscono non nominare.
“Fermati, e sappi che IO SONO Dio””, canta un salmo.
Alcuni obietteranno che, a dispetto di tutto quel che ho detto avrei, invece, una precisa idea di Dio. Risponderò che ho, piuttosto, una idea molto precisa di ciò che Dio non è e che anche quest’idea cade sotto l’attacco di questa critica in nove punti. Cionondimeno questo non costituisce un circolo vizioso, ma piuttosto un nuovo esempio del circolo VITALE della Realtà. Non possiamo parlare della Realtà ponendoci fuori di essa, o fuori dal pensiero, proprio come non possiamo vivere senza amore. Forse il divino mistero è ciò che dà significato a tutte queste parole. L’esperienza più semplice del divino consiste nel divenire coscienti di ciò che scuote il nostro isolamento (solipsismo) e che nello stesso tempo rispetta la nostra solitudine (identità).
Tradotto da F.Pelliconi, Mercoledì, 25 novembre 1998
– Da: http://it.groups.yahoo.com/group/risveglio
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