Il vero vedere. II giorno più bello della mia vita, la mia rinascita, per così dire, fu quando mi accorsi di non avere la testa. Non è una battuta, un’arguzia che vuole a ogni costo destare interesse. Lo dico con la massima serietà: non ho la testa.
Feci questa scoperta a trentatré anni. Benché fosse certamente inaspettata, fu la risposta a una ricerca pressante; da diversi mesi ero totalmente assorbito dalla domanda: “Chi sono io?”. Probabilmente il fatto che a quel tempo mi trovassi sull’Himalaya ha poco a che fare con la mia scoperta, per quanto si dice che in quelle regioni siano più frequenti gli stati mentali insoliti. Comunque sia, la giornata molto calma e luminosa e la vista che, dal crinale su cui mi trovavo, spaziava su valli nebbiose e sulla catena delle montagne più alte del mondo, formavano uno scenario degno della visione più sublime ed elevata. Quel che accadde in effetti era assurdamente semplice e normale: per un momento smisi di pensare. La ragione, l’immaginazione e tutto il chiacchierio mentale si spensero. Per una volta, rimasi davvero senza parole. Dimenticai il mio nome, la mia umanità, la mia esistenza oggettiva, tutto quel che potremmo definire io o mio. Il passato e il futuro si dileguarono. Era come se fossi nato in quell’istante, nuovo fiammante, senza mente, privo di tutti i ricordi. Esisteva solo l’Ora, il momento presente e ciò che ne faceva chiaramente parte.
Mi bastò guardare. E scoprii pantaloni color kaki che finivano in basso in un paio di scarpe marroni, maniche kaki che terminavano alle due estremità con un paio di mani rosa, e una camicia kaki che finiva in alto con… assolutamente nulla! Certamente non con una testa.
Notai immediatamente che questo nulla, questo buco dove avrebbe dovuto essere la testa, non era un vuoto ordinario, un puro niente. Al contrario, era densamente pieno. Era una vasta vacuità immensamente colma, un nulla che aveva posto per ogni cosa: posto per l’erba, gli alberi, le colline lontane e indistinte e per le cime nevose che le sovrastavano come una linea di nuvole angolose sospese nel ciclo azzurro. Avevo perso una testa ma avevo guadagnato un mondo.
Tutto era letteralmente stupefacente. Smisi quasi di respirare, assorto nel Dato. Vi era uno spettacolo superbo che risplendeva radiosamente nell’aria tersa, solo e senza sostegno, sospeso misteriosamente nel vuoto, e (ed era questo il vero miracolo, la meraviglia e la gioia) totalmente privo di un ‘io’, incontaminato da un qualsiasi osservatore. La sua presenza totale era la mia assenza totale, d’anima e corpo. Più leggero dell’aria, più trasparente del vetro, totalmente libero dall’io, non ero in nessun luogo.
Eppure, nonostante il carattere magico e misterioso della visione, non era un sogno né una rivelazione esoterica. Proprio il contrario: sembrava un risveglio improvviso dal sonno della vita ordinaria, la fine di un sogno. Era la realtà che brillava di luce propria e per una volta si era liberata totalmente della mente oscurante. Era la rivelazione, infine, del perfettamente ovvio. Era un momento di lucidità in una vita confusa, avevo smesso di ignorare qualcosa che (fin dalla prima infanzia, in ogni caso) ero sempre stato troppo occupato, troppo intelligente o troppo spaventato per vedere. Era un’attenzione pura, acritica, a ciò che era sempre stato sotto i miei occhi: la mia assoluta mancanza di un viso.
In breve, tutto era perfettamente semplice, chiaro e comprensibile, al di là delle discussioni, del pensiero e delle parole. Non sorgevano domande né riferimenti a un qualcosa oltre l’esperienza stessa, ma vi era solo pace e una quieta gioia, e la sensazione di aver abbandonato un fardello intollerabile.
(Da: Douglas E. Harding, La Via senza testa, Ubaldini)
Douglas E. Harding (1909-2007) è nato a Lowestoft, in Inghilterra, in una famiglia appartenente da due generazioni alla setta religiosa degli Exclusive Plyrnouth Brethren. A ventun anni, studente di architettura allo Unìversity College dì Londra, Harding rifiutò la fede dei genitori per cercare da sé la strada verso la “Verità che ci rende liberi”. Oltre a esercitare la professione di architetto a Londra, in India e nel natio Suffolk, ha insegnato filosofìa e religioni comparate e scritto molti libri.