I crolli, le crisi di guarigione e le notti oscure – momenti in cui ci sentiamo privati di tutto e disillusi, spogliati di ciò che credevamo fosse solido nelle nostre vite e senza niente con cui rimpiazzare ciò che abbiamo perso – ci forniscono un’esperienza diretta di ciò che il buddhismo tradizionale chiama “infondatezza”.
Scopriamo che la solida terra a cui pensavamo di essere appoggiati è fatta in realtà di sabbia instabile. Le credenze e le identità a cui ci siamo aggrappati si sono rivelati costrutti vuoti, senza nessun significato oggettivo. Se le esperienze di infondatezza possono essere davvero scomode, in particolar modo per le persone abituate a usare la conoscenza intellettuale per mantenere una sembianza di controllo sulla vita, secondo la tradizione buddhista sono invece di grande valore, perché offrono un’esperienza immediata di realtà innegabile. Paradossalmente, è proprio a partire da una forma di intimità con l’infondatezza che siamo in grado di fare scelte piene di discernimento relative alle decisioni che prendiamo e alle azioni che facciamo nel mondo della dualità, o “terreno”. Quando non abbiamo paura dell’infondatezza possiamo agire in maniera coraggiosa, radiosa e chiara. «La realtà è infondata», dice Lee Lozowick, «e l’unico posto in cui stare è l’infondatezza».
(Da: Mariana Caplan – A occhi aperti: Il discernimento sul sentiero spirituale)