Lo scopo del percorso spirituale è quello di toglierci la maschera, di sfilarci la corazza. Quando questo accade, si ha l’impressione di una crisi, perché, di fatto, lo è: si tratta della crisi dell’identità fissa. Il Buddha ci ha insegnato che l’identità fissa è la causa della nostra sofferenza. Guardando più a fondo. Potremmo dire che la vera causa della sofferenza consista nell‘incapacità di tollerare l’incertezza e nel credere che sia del tutto sano, normale, negare la sostanziale assenza di fondamento della condizione umana.
L’aggrapparsi all’ego è il nostro modo di negare la realtà. Una volta che ci siamo costruiti l’idea fissa “questo sono io”, vediamo tutto come una minaccia o una promessa, o come qualcosa di cui non ci importa nulla. Nei confronti di tutto ciò che incontriamo, proviamo attrazione, repulsione o indifferenza, a seconda di quanto ciò rappresenti una minaccia all’immagine che abbiamo di noi stessi. L’identità fissa è la nostra falsa sicurezza, e la manteniamo filtrando tutta la nostra esperienza attraverso quest’angolazione. Quando ci piace qualcuno, di solito è perché ci fa sentire bene: non ci manda all’aria il viaggio, non disturba la nostra identità fissa, quindi diventiamo amici.
In genere, quando una persona non ci piace – non è sulla nostra lunghezza d’onda e quindi non vogliamo frequentarla – è perché mette in discussione la nostra identità fissa. Ci sentiamo a disagio in sua presenza perché non ci dà le conferme che desideriamo ricevere e così non possiamo funzionare come vorremmo. Spesso consideriamo le persone che non ci piacciono come nemici, ma di fatto costoro sono estremamente importanti per noi: sono i nostri più grandi maestri, messaggeri speciali che appaiono proprio nel momento in cui ne abbiamo bisogno per mettere in discussione la nostra identità fissa.