Uno studente mi ha raccontato una storia esemplare. Un uomo è seduto sul tetto della casa sepolta sotto l’acqua di un’inondazione. L’acqua lambiva il tetto quando arrivarono i soccorsi su una barca. Raggiunsero l’uomo a fatica e urlarono: “Buttati nella barca!”. “No”, rispose, “Dio mi salverà”. L’acqua continuava a salire, costringendolo ad arrampicarsi sempre più in alto. Nonostante l’impeto della corrente, arrivò un’altra barca. Di nuovo venne scongiurato di saltare dal tetto e di nuovo rispose: “No, Dio mi salverà, sto pregando e Dio mi salverà”. L’acqua continuò a salire e si ritrovò immerso fino al collo. Arrivò un elicottero. Si fermò sopra di lui per issarlo a bordo. L’uomo rifiutò ancora: “Dio mi salverà”. L’acqua continuò a salire e l’uomo annegò. Arrivato in paradiso si lamentò con Dio: “Perché non mi hai salvato?”. “L’ho fatto”, rispose Dio; “ti ho mandato due barche e un elicottero”.
Aspettiamo l’arrivo di qualcosa che chiamiamo verità. Non esiste. La verità è ogni secondo, ogni azione della nostra vita. La vana attesa di un luogo rassicurante da qualche altra parte ci mantiene nell’ignoranza e nel disprezzo di ciò che è in questo preciso momento. Quindi cosa significa non nutrire aspettative in zazen [meditazione seduta], nelle sesshin [ritiri]?
Significa ovviamente fare davvero zazen, semplicemente sedere. Non c’è nulla di sbagliato nei sogni e nelle fantasie, ma non alimentateli: vedetene l’irrealtà e staccatevi. State con l’unica cosa reale: la percezione del corpo, del respiro e dell’ambiente.
Nessuno vuole abbandonare le proprie aspettative. E, a dire il vero, nessuno le abbandonerà di colpo. Ma possiamo sperimentare periodi, di pochi minuti o di qualche ora, in cui c’è soltanto ciò che è, questo flusso. Essere davvero in contatto con l’unica cosa che abbiamo e che avremo: la nostra vita.
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