L’io non può essere contemplato in una teoria per una ragione molto semplice: perché l’io stesso è quella teoria. Non si sfugge al paradosso autoreferenziale. Possiamo discettare di Dio, del karma, della mente, della materia, dell’universo e dell’infinito, ma non riusciremo mai a sfuggire al paradosso implicito che siamo parte della nostra stessa descrizione, proprio come un pesce non può tirarsi fuori dall’acquario nel quale nuota e pretendere di descriverlo dall’esterno.
L’io è un’illusione prospettica. Ciò non significa che sia irreale, né che non esista. Significa solo che la sua esistenza dipende da certe condizioni. Se vi sono le condizioni l’io sorge, se le condizioni cessano anche l’io cessa. Ma l’io non si può astrarre dalle condizioni che lo generano e contemplarle “oggettivamente”. In “realtà” nulla può essere considerato “oggettivamente”, perché l’oggetto è inseparabile dal soggetto e l’uno non può esistere indipendentemente dall’altro, proprio come i poli di una sfera dipendono dalla rotazione e non possono esistere in assenza di essa. Ogni tentativo (filosofico o scientifico) di simulare l’“oggettività” non è che un trompe-l’oil, ossia un’illusione, in cui spesso cade lo stesso creatore, come un geografo che tracci una mappa dimenticandosi che lui stesso è parte del territorio mappato.
Perciò, se si danno le condizioni, l’io sorge e non può fare a meno di compiere atti impulsivi che necessariamente vanno a creare un destino. In tutto questo non c’è nessuna scelta, nessun giudizio, ma solo l’inesorabile meccanismo della produzione condizionata.
Flavio Pelliconi
(Tratto da un messaggio di "Risveglio", gruppo di discussione e condivisione sulla pratica della consapevolezza, in data "Dom 25 Feb 2007")
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