Raimon Panikkar (Barcellona, 3 novembre 1918 – Tavertet, 26 agosto 2010) nato da padre indiano e madre spagnola si laureò in filosofia, chimica e teologia, insegnò fino al 1987 all’Università di California e Santa Monica. Sacerdote, ricevette dalla Chiesa l’interdizione a celebrare la messa. E’ stato uno dei massimi teologi contemporanei. Quella che segue è parte della la prefazione che scrisse al testo Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen, pubblicato dalle edizioni Dehoniane di Bologna.
«La normale esegesi cristiana dei Vangeli per lo più è consistita in un’interpretazione degli stessi all’interno del contesto storico della cultura giudeo-ellenico-romana dei tempi in cui essi furono scritti. Per una corretta ermeneutica di un testo si richiede la conoscenza del suo contesto e, aggiungo io, quella dell’intento dello scrittore. Sui Vangeli sono stati scritti migliaia di libri, al punto che è proprio dall’interpretazione della Bibbia che la moderna scienza ermeneutica trae le sue origini. Si è venuto formando perfino un corpus di interpretazioni della Scrittura, che ha avuto l’approvazione ecclesiastica e costituisce quella che è chiamata la tradizione cristiana, una cornice obbligata per ogni interpretazione cristiana che voglia essere ortodossa.
Mi sta bene! Le Sacre Scritture cristiane non possono ignorare il corpus della tradizione che le accompagna. Il Sola Scriptura, piuttosto che un’eresia tipica di un periodo storico di individualismo moderno, è un’impossibilità, perché una Scrittura scritta pressoché venti secoli fa non è sola; strati di polvere l’hanno ricoperta e fasci di luce l’hanno illuminata. Di più, le nostre stesse lenti hanno uno spessore di due mila anni.
Parimenti la tradizione buddista zen ha prodotto migliaia di libri, e annovera un gran numero di scuole e interpretazioni diverse, caratterizzati da un tocco esistenziale ed esperienziale tutto suo. Così fu detto! Ma quando ciò che fu detto viene udito, allora è questo e quello. Il nostro autore ama dire: Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur (ognuno riceve secondo la capacità che ha di ricevere).
Per la maggior parte del tempo queste due branche della sapienza sono vissute indisturbate, in splendido e placido isolamento vicendevole. Oggi questo non è più possibile. Nessuna religione può ignorare chi le vive accanto. Noi veniamo come rimbalzati l’uno contro l’altro; e ogni coesistenza comporta i suoi problemi!
Quando, quasi mezzo secolo fa, stavo per accingermi a tradurre una parte notevole di Sacre Scritture indù, alcuni amici cristiani mi misero sull’avviso che queste non avrebbero dovuto essere usate per la preghiera cristiana. Evidentemente si possono usare i salmi e gli inni anche di origine non-cristiana o pagana; ma mai e poi mai i Veda! Alcuni amici hindu, sull’altro versante, mi fecero osservare che un prete cattolico romano non poteva pretendere di capire i mantra hindu e, strettamente parlando, neppure leggerli, a scapito di profanarli. Conoscere una cosa è entrare dentro quella cosa; per capire una cosa bisogna esserne parte in qualche maniera. Solo così si può sperimentare la sua vera essenza. È certamente corretto affermare che senza fede uno non può capire adeguatamente un testo sacro. Ma la fede non va confusa con credenza. Io ho introdotto anche la nozione di pisteuma nella fenomenologia religiosa, in contrapposizione con il noêma della fenomenologia tradizionale. Pisteuma (da pistis, fede) è ciò che il credente crede; noêma (da nous, mente) è ciò che un osservatore capisce. La fenomenologia religiosa si incarica di descrivere ciò che il credente crede e non quello che l’osservatore osserva. Se l’osservatore, un outsider, si limita a descrive quello che osserva, è certo che non descrive quello che il credente crede.
La risposta che io davo ai miei critici era che i Veda appartengono all’umanità e che la mia ermeneutica (come qualsiasi traduzione) era legittima, a patto che io partecipassi di quello spirito umano che aveva ispirato la sruti, la rivelazione vedica. Sorprendentemente, a lavoro finito, fui riconosciuto da molti pandit come un rsi reincarnato, uno dei saggi che per primi cantarono i Veda. Come avrei potuto altrimenti, dissero, scrivere ciò che avevo scritto? Dico questo, per sottolineare insieme sia la diversa reazione dell’altra cultura, come la sfida teologica del libro di p. Luciano e di Jiso.
Sono perfettamente d’accordo che un testo sacro debba essere maneggiato con rispetto, che una certa disciplina dell’arcano sia giustificata e che un certo tipo di iniziazione sia richiesto per accostare con frutto qualsiasi testo sacro, il che assurge a un atto liturgico. La democrazia è un buon antidoto alla teocrazia, ma ha un effetto collaterale rovinoso se distrugge ogni senso di gerarchia. Non è il mio ruolo qui quello di prescrivere degli antidoti. Dobbiamo rispettare la tradizione; eppure le tradizioni viventi non sono mummie ibernate. Abbiamo bisogno del soffio vitale dello Spirito; e non di stare attaccati a tradizioni senza vita, solo perché esse erano considerate vive in un certo passato (cfr. Mt. 15, 2 ss.; 23, 25 ss. ecc.).
Proprio qui sta la sfida teologica di questo libro. L’autore, un uomo di fede, legge e spiega i Vangeli al di fuori del loro contesto proprio. È ciò appropriato? La proprietà intellettuale dei Vangeli non appartiene forse alla specifica tradizione cristiana? Il contesto storico proprio del periodo temporale in cui essi furono scritti non è essenziale e normativo? Qui sorgono due domande. Una filosofica: i Vangeli sono solo racconti intellettuali e storici? L’altra strettamente teologica: il messaggio evangelico è essenzialmente legato ai figli naturali o a quelli adottivi di Israele o di Abramo, come dir si voglia?
Senza alcun dubbio i Vangeli intendono trasmettere ben più che la semplice informazione storica e intellettuale. Le prime parole pubbliche di Gesù invitavano alla metanoia (conversione), al trascendimento del nous, al superamento dell’intelletto, anche della struttura mentale del ceppo di Abramo. Se a Paolo fu ordinato di andare ai gentili, fu solo per addottrinarli nelle maniere culturali ebraiche o non piuttosto per rendere possibile anche altrove l’Incarnazione della Parola? L’interpretazione spirituale è più che legittima. E dicendo spirituale mi riferisco a quello Spirito che soffia dove, quando e come vuole.
La sfida cui ho fatto cenno all’inizio, deve essere collocata nella situazione nuova del nostro terzo millennio. Dobbiamo conoscere i segni dei tempi. E qui trovo l’importanza di questo libro, insieme con altri studi che cominciano discretamente ad apparire. Mi sia permesso formulare questa precisa domanda: i Vangeli fanno riferimento soltanto alla figura storica di un Uomo chiamato Gesù, oppure parlano fin dall’inizio del Cristo Gesù, che l’arcangelo Gabriele descrisse come Figlio dell’Altissimo e ai pastori fu annunciato come Salvatore, Unto e Signore? Certo, il Cristo risorto era il Gesù storico, ma l’argomento-materia dei Vangeli non è la storia di colui che veniva creduto figlio di Giuseppe, bensì la preistoria e il racconto del Figlio di Dio che cammina come vero Uomo, in una particolare terra e in un determinato tempo. La tendenza moderna per il Gesù storico ha portato in superficie interessanti caratteristiche di quell’ebreo di paese e taumaturgo mediterraneo; ma ha anche distolto specialmente esegeti e studiosi da quello che è il cuore dei Vangeli, senza per questo dover cadere nella superstizione. Alessandro il Grande, Gengis Khan e Napoleone hanno cambiato anche il corso della storia e, come ebbero a dire gli storici contemporanei, la faccia della terra. Di quale terra? Sono i Vangeli solo libri storici?
In altre parole, per ragioni storiche e altri motivazioni che la sociologia della conoscenza ci aiuta a scoprire, la visione del mondo dei primi secoli cristiani era ferma a una nozione geografica e storica assai ridotta dell’oikumene: nessuno oggi oserebbe sostenere che i sei giorni di Mosé erano di ventiquattro ore o che la terra dei Vangeli includesse anche la Patagonia. Eppure, questa sindrome di un solo mondo, che equivaleva al nostro mondo, ha persistito fino ai nostri giorni. Durante i primi secoli cristiani si pensava che l’Impero romano fosse l’intero mondo civilizzato; la formula urbi et orbi, che più tardi divenne la formula usata dal Romano Pontefice, era una abituale espressione latina, che rifletteva la mentalità imperiale: orbis in urbe iacet (il mondo intero giace nella città di Roma), e potrei moltiplicare gli esempi, su su fino a Copernico e alla moderna ideologia globale. Quello che accade per lo spazio, similmente accade col tempo, anche se non è ora il caso di fare disquisizioni sul tempo delle aspettative escatologiche o della risurrezione. Che la rivelazione termini con l’ultimo degli Apostoli è stata una credenza teologica cristiana senz’altro utile, naturalmente, per considerare l’Islam un’eresia e i Bahâ’i in errore. Ma disquisendo così noi restiamo rinchiusi nella cultura del ceppo di Abramo. Come possiamo giustificare queste nostre estrapolazioni? È il tempo escatologico la fine di una temporalità lineare?
Non c’è alcun dubbio che le Sacre Scritture cristiane appartengano al ceppo culturale abramico, innestato sulla cultura ellenica. C’è da dire qui che questa inculturazione o mutua fecondazione tra le culture ebraica ed ellenistica, è un fenomeno precristiano, come testimonia la straordinaria attività interculturale degli autori dei Settanta nell’Alessandria del III secolo prima di Cristo, che ha avuto il suo culmine in Filone, pressappoco contemporaneo di Cristo. Ciò che Filone fece con il giudaismo, divenne modello per i Padri della Chiesa dei primi secoli. Tuttavia sembra che quel movimento creativo si sia fermato lì, a parte alcuni cambiamenti accidentali introdotti dalla cultura europea posteriore. Richiamo questi fatti perché da ben più di mezzo millennio sembra proprio che l’ascolto dei Vangeli debba ridursi ad ascoltare gli echi di periodi passati.
È un fatto che al di fuori dell’area ellenico-semitica, la Bibbia ebraica suoni esotica, estranea e qualche volta incomprensibile, per non dire scandalosa. I Vangeli greci nella loro semplicità sono più congeniali alle altre culture, ma la teologia susseguente, costruita su di loro, è incomprensibile al di fuori degli schemi mediterranei di intelligibilità. Devono forse, gli altri popoli del mondo subire una circoncisione della mente dopo che la circoncisione del corpo fu abolita dal I Concilio di Gerusalemme? Credo in quel sacramento primordiale di Jahve con il suo popolo; ma anche qui non possiamo fare estrapolazioni. Il Giudaismo sta in piedi da solo e non ha bisogno della protezione, meno ancora dell’assorbimento da parte di una religione nuova che la Sinagoga ha rigettato. Ma questo non è il luogo per parlare di pluralismo.
La mia questione non è se i cristiani debbano impiantare dappertutto i semi del Vangelo, benché mi sorga il sospetto che per taluni inculturazione non significhi piantare dei semi (simboli), ma far crescere piante (sistemi concettuali). Nessuna meraviglia che quei semi (semina Verbi) producano pochi frutti, non perché la terra non è buona, ma perché il sottosuolo è diverso. Non tutte le piante possono crescere nello stesso suolo e sotto lo stesso clima. Parlo, invece, di interculturazione, cioè di fecondazione mutua. La mia questione è se le Sacre Scritture cristiane hanno qualcosa da dire, in quanto Scrittura religiosa, a popoli che non sono né figli di Abramo, né nipoti delle culture europee. Dovremmo noi leggere i Vangeli come documenti culturali interessanti o come messaggi religiosi (spirituali)?
La mia questione riguarda l’identità cristiana. Vogliono i cristiani mantenere la propria identità, salvaguardando le differenze (principio di non-contraddizione)? Oppure sottolineando la auto-comprensione (principio di identità)?
Entrambe le risposte, sì o no, sono sensate e del tutto legittime. Per dare una risposta dal versante cristiano, per decenni ho invocato un II Concilio di Gerusalemme, dal momento che io non ho alcuna autorità per decidere del destino della Chiesa cristiana. Questa si trova di fronte a un bivio: deve decidere se la comunità cristiana è il resto di Israele, il piccolo gregge; ovvero se ha il coraggio di seguire l’esempio del I Concilio che ruppe con il giudaismo ed abolì il patto fondazionale di Jahve con il suo popolo (la circoncisione), liberando il Cristo kenotico, simbolo universale di risurrezione, liberazione, realizzazione, salvezza, pienezza, destino della realtà intera. Uso un simbolismo cristiano molto tradizionale: come Maria, la Madre di Dio (theotokos), diede la nascita a Gesù e Gesù fece poi il suo percorso di adulto, allo stesso modo la Chiesa del terzo millennio, quale icona di Maria, partorisce il Cristo che si incarna nei figli dell’Uomo in modi che non spetta a noi determinare o persino prevedere. Potrei insinuare di passaggio che se una Chiesa adulta avesse tagliato il cordone ombelicale con il giudaismo e avesse riconosciuto il valore indipendente della Bibbia, senza pretendere di averne un’interpretazione più autorevole di quella giudaica, l’ondata antisemita non sarebbe mai sorta. L’eredità giudaica del cristianesimo è un dato di fatto innegabile. Per quanto concise e poco elaborate possano essere queste mie note, non sono marginali: mirano a mettere in risalto l’importanza di questo libro e il suo rischio, se mal compreso.
* * *
Non so se l’autore abbia inteso avventurarsi fin qui; certo è che io trovo in ciò che scrive una profonda empatia con le questioni che ho sollevato. È evidente che del contenuto di una prefazione è responsabile chi la scrive. Tuttavia mi preme sottolineare che la decisiva sfida teologica che fa capolino nell’opera dell’autore è la stessa che qui io ho appena abbozzato. Soltanto di un abbozzo si tratta e niente più, come si addice in questo contesto.
In realtà, l’autore che cosa sta facendo? È una domanda legittima! Non sta forse presentando una figura di Gesù alla luce di una cultura e religione straniera, in modo che sia significativa tanto per il buddista come per il cristiano? Così facendo, i Vangeli, come illuminati da una nuova luce, rivelano aspetti nuovi dell’Uomo Gesù: quindi nuovi significati per i cristiani e contemporaneamente messaggi che parlano anche a quelli che si trovano fuori dei confini della Chiesa visibile.
Ma altri, al contrario, si domandano se l’autore non stia forse travisando l’immagine di Gesù, che dopo tutto non era un guru orientale. Cerca forse, si chiedono, di smussare gli aspetti acuminati della spiritualità Zen, per adattarli a un pubblico occidentale? E se togliendo la polvere dei secoli finisse per buttare via autentici tesori della tradizione cristiana? Serve mai a qualcosa l’eclettismo? Anche queste sono voci da ascoltare!
Uno dei miei critici mi scrisse una volta che al posto di cristianizzare l’induismo, che era quello che avrei dovuto fare, stavo induizzando il cristianesimo, il che era una eresia. Ho gentilmente risposto che il cristianesimo era vivo grazie alle simbiosi operate con la Grecia, Roma, l’Europa, la Modernità e simili. Perché dovremmo fermare il vento, meglio, la brezza dello Spirito? Uno Spirito che fa muovere tutte le cose e che millenni fa ha spazzato via il sogno umano di una sola lingua universale, come riferisce l’episodio della torre di Babele narrato nella Genesi.
I problemi ingigantiscono. Non traviserei forse l’immagine di Napoleone, se ignorassi la storia europea che lo precede e lo assimilassi a Tipu, il Sultano dell’India Meridionale, suo contemporaneo? Entrambi erano grandi guerrieri e personalità straordinarie, entrambi hanno pronunciato frasi memorabili. Ma se li isolassi dai rispettivi mondi storici favorirei la comprensione di questi due capi politici? Il Gesù storico è davvero il giudeo della Palestina occupata di due mila anni fa, così come Hui-neng, il sesto Patriarca, è un’altra figura storica del VII secolo. Detto ciò, ancora ci domandiamo: ma lo Zen e i Vangeli sono solo documenti storici?
L’etnocentrismo ebraico è perfettamente comprensibile. Jahve è il Dio di un popolo, il suo popolo che Egli ha difeso contro i suoi nemici. Ancor più è comprensibile la tragica grandezza di tale popolo che visse nella diaspora, senza armi e spesso senza potere, circondato da gentili non sempre troppo gentili. La sua unica speranza era stata la protezione del suo Dio. L’inizio della Lettera agli Ebrei esemplifica quanto fosse drammatico il dilemma dei primi cristiani ebrei. Non c’è dubbio che secondo la Lettera, i Profeti che Jahve aveva inviato al suo popolo fossero solo ebrei. Immaginare che l’autore della Lettera avesse potuto sognare altri profeti, di altre tradizioni, come ho fatto io, non è storicamente corretto. Ma la Lettera va avanti e parla del Figlio (di Dio) che frantuma i particolarismi degli Ebrei. Questo Figlio è creatore dei mondi, splendore di Dio e substrato di tutte le cose per il potere della sua Parola. Da una parte è scritto che questo Figlio è più grande degli angeli, per cui la sua gloria e potere, non vi è dubbio, non sono limitati ai figli di Israele. Dall’altra si può capire anche l’orgoglio presente in tutta la Lettera, per il fatto che l’apparire storico di quel Figlio – apparizione storica che a sua volta era stata iniziata dalla figura di un non-ebreo, di Melchisedech – sia strettamente connesso al popolo ebreo, nonostante le dure requisitorie dei profeti circa l’infedeltà di quel suo popolo. Jahve avrebbe potuto fare come un padre che castiga i suoi figli. Ma non è corretto utilizzare le dure parole dei profeti ebrei contro il popolo di Israele, per denigrarlo dal di fuori o per difendere l’interpretazione cristiana; così come non è corretto invocare lo scandalo della Croce per difendere gli insegnamenti cristiani, come se lo scandalo non fosse tale anche per i cristiani stessi. È chiaro che non sto parlando della teocrazia secolarizzata del moderno Stato di Israele.
Insomma, la tensione si avverte fin dall’inizio. La Bibbia, come libro religioso appartiene indubbiamente alle tribù di Israele; ma le Sacre Scritture cristiane, fosse anche come semplice libro religioso, non appartengono a nessuno in particolare. Il Cristianesimo non è una religione etnica, e questo è il mio punto. Non era ovvio all’inizio. Che diritto abbiamo di pensare che il messaggio di quell’ebreo trascenda i confini della Giudea e della Galilea? Non si fece forse discepolo di Giovanni il Battista per percorrere il sentiero della conversione del cuore? Ricalco: del cuore. Non fu forse anche lui un giovane rabbino che pensava di essere stato mandato solamente per il popolo di Israele, per cui ci fu bisogno dell’amore di una madre per il suo bambino per frantumare quella sua rigida ortodossia (Mt. 15, 22 ss.)? Non crebbe anche lui in sapienza (Lc. 2, 51)? Non fu forse rigettato dal proprio popolo e crocifisso fuori della Santa Città, come non a caso i cristiani della prima generazione sottolineano? E soprattutto, non dovette risuscitare il terzo giorno? Eppure in Cristo non ci sono né giudei, né greci, né schiavi o liberi, e neppure uomini o donne (Gal. 3, 28). I Vangeli non sono la storia di Gesù, l’ebreo; sono invece i racconti di Gesù, il Cristo, cioè il Risorto.
Il Cristianesimo non è una religione del Libro, bensì della Parola. La parola ha bisogno di essere ascoltata. C’è una certa ironia nel fatto che la divina Provvidenza abbia disposto che noi di fatto non conosciamo una sola frase di Gesù. Tommaso d’Aquino sostiene magnificamente che Gesù non avrebbe dovuto scrivere alcunché, altrimenti il suo messaggio vivente si sarebbe convertito in mera dottrina (Summa teol. III, q., 42, un. 4).
Sto riportando il discorso a quanto ho detto all’inizio. C’è un profondo e, oserei dire, per molti un disturbante problema, già nell’intento stesso di questo libro. È comprensibile che coloro che si sentono investiti della responsabilità di custodire la purezza della dottrina, non si lascino convincere facilmente dalle buone intenzioni di quei teologi che vanno oltre le frontiere stabilite. È una situazione analoga a quella della donna siro-fenicia: le disquisizioni in cui manca l’amore creano confusione, se non danno. Voglio dire che non dobbiamo accostarci al problema dialetticamente, cioè dottrinalmente. Le parole di vita eterna sono concesse gratuitamente a quelli che ne hanno sete vera. Per i dotti e i ricchi è più difficile. Noi non possiamo, naturalmente, né ridurre il cristianesimo a una dottrina, né eliminare dalle Sacre Scritture il loro contenuto mistico, senza con ciò trascurare la stessa dottrina. L’unico messaggio che il Cristo risorto instilla in noi è quello della pace e del non avere paura.
Lo dico in maniera più accademica. Stiamo assistendo alla crisi del mito che ha prevalso in occidente: il mito che una sola cultura sia sufficiente per abbracciare l’intera gamma dell’esperienza umana. In base a tale mito re, imperatori, papi, presidenti, governi ed eserciti, in buona fede, hanno fomentato il progetto di unificazione politica, religiosa o economica del mondo. Un nome passato del progetto è stato colonialismo; ora ha preso altri nomi: globalizzazione, etiche globali, scienza universale e simili. Ora, il mito è in crisi, se non in procinto di crollare.»
– Raimon Panikkar –
[Parte della prefazione di Raimon Panikkar al testo “Il Vangelo secondo Giovanni e lo Zen“, edizioni Dehoniane di Bologna. Il libro è stato scritto da p. Luciano Mazzocchi in collaborazione con Jiso Forzani e comprende commenti e meditazioni ai brani evangelici. Si tratta del secondo volume dedicato al Vangelo di Giovanni (il primo era uscito nel 1999 con il sottotitolo ‘Meditazioni sull’esistere’).]
– Raimon Panikkar (amazon)
– Raimon Panikkar (macrolibrarsi)
– https://it.wikipedia.org/wiki/Raimon_Panikkar