Jan è un giovane che contesta le autorità costituite, ama il jazz, le motociclette e l’anarchia, ma una domanda lo tormenta: “Perché tutto è cominciato, e a quale scopo?”.
Nei corridoi di un’università londinese, un cinico professore di filosofia, per il quale solo i mistici, i depressi e i folli hanno simili tormenti, gli assegna il suo destino: “Vada in un monastero, si trovi un maestro … di meditazione … e vedrà che guarirà!”
A ventisei anni, rasato e vestito con cura, Jan si presenta alla porta di un antico monastero zen di Kyoto. Dopo aver traversato porticati solenni e leggiadri giardini di muschio e pietra, è al cospetto del maestro.
“La vita è uno scherzo; un giorno imparerai a capirlo, non ora, ma più tardi”: con queste enigmatiche parole, Jan è accolto come discepolo. Dovrà soggiornare nel monastero per almeno otto mesi, svegliarsi alle tre del mattino, meditare con gli altri monaci sotto la guida del superiore, ricevere il suo Koan (l’indovinello apparentemente senza senso che costitusce, nella tradizione zen, la chiave per accedere al Sentiero delle Otto Vie indicato dal Buddha), lavorare in giardino; provvedere alla cerimonia del tè, affrontare i sesshin (le settimane in cui la porta del monastero è chiusa, la meditazione incessante e la disciplina implacabile), sedersi nella posizione del loto – dovrà, in breve, vivere come un monaco tra i monaci.
Lo specchio vuoto è lo straordinario diario di questa esperienza. Uno di quei libri rari in cui lo sguardo occidentale riesce, senza rinunciare all’ironia e al disincanto che gli è proprio, a penetrare nella pratica mistica orientale. Nelle sue pagine, si schiude il prezioso dono di un’antica sapienza: la consapevolezza che è possibile destarsi, essere “quel tanto più sveglio per non addormentarsi più” e scivolare con levità attraverso lo “scherzo della vita”.