C’era una volta, in una città chiamata Speranza, un giovane di nome Joe. Era molto addentro allo studio del dharma, e per questo ricevette un nome buddhista: Mushin.
Aveva una vita normale, un lavoro e una bella moglie. Ma, nonostante l’interesse per il dharma, era una persona sgradevole e presuntuosa. Per il suo carattere combinava molti pasticci sul lavoro, finché un giorno il capo gli disse: “Ne ho abbastanza di te, sei licenziato!”. A casa, lo aspettava un biglietto della moglie: “Ne ho abbastanza, me ne vado”. Joe rimase con una casa, se stesso e nient’altro.
Ma Joe, Mushin, non mollava facilmente. Aveva perso il lavoro e la moglie, ma fece voto di ottenere ciò che più importava nella vita: l’Illuminazione. Si buttò nella prima libreria e frugò nell’ultima infornata di titoli su come ottenere l’illuminazione. Uno richiamò la sua attenzione: “Come prendere il treno dell’Illuminazione”. Comprò il libro e lo lesse attentamente. Lasciò la casa, mise tutti i suoi beni terreni in uno zaino e raggiunse la stazione alla periferia della città. Il libro asseriva che seguendo fedelmente le istruzioni (fai questo, questo e quell’altro), quando il treno fosse arrivato si sarebbe stati capaci di prenderlo. “Ottimo!”, commentò Joe.
La stazione era vuota. Joe si sedette ad aspettare e, intanto, rilesse il libro per essere sicuro di avere mandato a memoria tutte le istruzioni. Aspettò. Due, tre, quattro giorni attese l’arrivo del treno dell’illuminazione, perché il libro garantiva che sarebbe arrivato. Aveva fiducia in quel libro. Finalmente, il quarto giorno, udì un boato in lontananza, un rombo terribile. Seppe che stava arrivando IL treno. Si preparò. Era così eccitato dall’arrivo del treno, quasi non ci credeva, quando… WHOOSH… il treno passò: una forma indistinta che subito scomparve. Cos’era successo? Nemmeno parlare di acchiapparlo!
Perplesso, ma non scoraggiato, Joe riprese il libro e, seduto sotto la pensilina, studiò meglio alcuni esercizi con tutte le sue energie. Tre o quattro giorni dopo si riudì in lontananza il terribile rombo: questa volta ce l’avrebbe fatta. Eccolo arrivare e… WHOOSH… passato! Be’, quello era il treno, non si poteva sbagliare. L’aveva riconosciuto, ma non era riuscito a prenderlo. Si rimise a studiare e a fare esercizi, e la stessa cosa accadde più e più volte.
Nel frattempo, altri avevano comprato il libro ed erano venuti a tenere compagnia a Joe. All’inizio quattro o cinque, poi trenta, quaranta persone che aspettavano il treno. L’eccitazione era all’apice: ecco la Risposta che arrivava. Tutti udirono il boato del treno che passava e, sebbene nessuno riuscisse a prenderlo, nutrivano grande fiducia che, una volta o l’altra, almeno uno di loro avrebbe avuto successo. Se anche uno solo ci riusciva, che stimolo per tutti gli altri! La folla crebbe, e l’atmosfera di eccitazione era molto piacevole.
Mushin aveva notato che alcuni avevano portato i bambini. Erano però così assorti nel cogliere l’arrivo del treno che, quando i bambini richiamavano la loro attenzione, sbottavano: “Non scocciare, vai a giocare”. Quei bambini erano davvero trascurati. Mushin, che dopo tutto non era così cattivo, si disse: “Io voglio aspettare il treno, ma qualcuno deve pur prendersi cura dei bambini”. E incominciò a dedicarsi ai piccoli. Frugò nello zaino e scovò noccioline, uvetta e cioccolata. Era ora, perché alcuni avevano davvero fame. Altri avevano le ginocchia sbucciate e Joe si preoccupò di applicargli dei cerotti e di leggere loro delle storie.
Pian piano, anche se faceva ancora attenzione all’arrivo del treno, i bambini diventarono la sua occupazione principale. E crescevano di numero. Arrivarono anche degli adolescenti, con tutta la loro selvaggia energia. Così Joe organizzò delle squadre di baseball, si mise a coltivare un orto e convinse i più giudiziosi a dargli una mano. In men che non si dica si trovò ad avere un compito enorme che gli lasciava sempre meno tempo per aspettare il treno, e la cosa non gli piaceva. Tutti quegli adulti aspettavano il treno e LUI no, doveva occuparsi dei bambini! Rabbia e irritazione ribollivano. Ma sapeva che doveva occuparsi dei piccoli, e lo faceva.
Col tempo, le persone che aspettavano il treno divennero centinaia e migliaia, e tutti portavano la famiglia e i bambini. Per venire incontro ai bisogni di tutti, Joe aveva apportato delle migliorie: aveva costruito dormitori, un ufficio postale e una scuola. Era impegnatissimo, ma ira e risentimento erano sempre con lui. “L’unica cosa che mi importa è l’illuminazione. Tutti quegli altri stanno lì ad aspettare il treno, e io?”. Ma continuò a fare quello che faceva.
Passò ancora del tempo, e d’improvviso l’impegno febbrile ed esigente in cui si era trovato calato senza volerlo non gli sembrò più un tale sforzo. Ciò lo sorprese. A pensarci bene, nulla era cambiato nella routine delle sue giornate; soltanto, da un po’ di tempo gli capitava sempre più spesso, quando tutti erano ormai andati a dormire, di sedersi tranquillamente, senza far nulla, nel silenzio della notte. Era possibile che ci fosse un rapporto tra questa nuova abitudine e i barlumi di pace che cominciava a gustare?
Ne parlò ad alcuni amici, che, ormai scoraggiati dai tentativi falliti di prendere il treno, decisero di venire a sedersi di tanto in tanto con lui. Si formò un piccolo gruppo, mentre la faccenda degli acchiappatori del treno si stava espandendo. Nella stazione vicina si era insediata una nuova colonia. Anche lì i problemi erano gli stessi, così ogni tanto il suo gruppo andava a dare una mano. Poi si aggiunse una terza stazione… un lavoro infinito.
Erano impegnatissimi. Dal mattino alla sera era tutto un cucinare per i bambini, lavori di falegnameria, far funzionare l’ufficio postale, mettere in piedi il piccolo ospedale… tutto ciò che serve alla sopravvivenza e al funzionamento di una comunità. Non avevano tempo per il treno, anche se continuava a passare: ne potevano udire il rombo distintamente. C’era un po’ di invidia e di disappunto. Ma, bisognava ammettere, non così forti come prima: c’erano e non c’erano.
Mushin aveva ormai cinquant’anni, e portava i segni di anni di lavoro e di fatica. Era curvo e stanco. Ma non si preoccupava più delle cose che un tempo lo inquietavano. Aveva dimenticato i grandi interrogativi filosofici: “Perché viviamo? La vita è reale? È un sogno? Perché si soffre?”. Era così occupato a vivere e a lavorare che tutto ciò che non fossero gli impegni quotidiani era svanito. Il risentimento, svanito. I grandi interrogativi, dissolti. Tutto ciò che gli importava erano le cose che andavano fatte. Inoltre, non sentiva più di doverle fare; le faceva e basta.
Le stazioni traboccavano di comunità che lavoravano e allevavano i figli, assieme a quelli che aspettavano il treno. Alcuni di questi venivano assorbiti nella vita delle comunità, sostituiti da nuovi arrivi. Mushin cominciò ad amare anche le persone che aspettavano il treno. Le serviva e le aiutava. Gli anni passavano, Mushin invecchiava. Le sue domande si erano azzerate. Non aveva più domande. C’era Mushin e la sua vita, il fare attimo per attimo ciò che andava fatto.
Una notte, come tante altre, Mushin sedeva tranquillo, sotto la volta stellata del cielo. Sedere, per lui, non era più questione di cercare qualcosa, di diventare migliore o di raggiungere la santità. Tutte idee dissoltesi ormai da anni. Non c’era nient’altro oltre allo star seduto: il rumore delle rare automobili nella notte, l’aria fresca, i cambiamenti avvertibili nel corpo. Mushin sedette tutta la notte. All’alba, udì il rombo del treno. Piano piano, il treno si fermò, proprio davanti a lui. Mushin capì che era stato da sempre su quel treno. Capì che lui stesso era il treno, che non c’era alcun bisogno di affannarsi a inseguirlo. Niente da raggiungere, nessun luogo in cui andare. Solo la pienezza della vita. Le vecchie domande, che non erano più tali, si risposero da sé. Il treno si dissolse, lasciando un vecchio seduto nel mattino.
Mushin si stirò e si alzò in piedi. Preparò il caffè mattutino per quelli che venivano al lavoro. L’ultima immagine che ne abbiamo è Mushin nella falegnameria, intento a costruire con i ragazzi più grandi un’altalena per il parco giochi dei bambini.
[Il racconto è tratto da – Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano”, Ubaldini, 1991, pagg. 152-155 (La parabola di Mushin) – ed è stato parzialmente rielaborato – sintetizzato – dal sottoscritto. Buona lettura! :-)]
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