Consideriamo il concetto di ‘rinuncia’. È sensazione comune che, per incominciare una nuova vita, dobbiamo rinunciare a quella vecchia. A che cosa si rinuncia? Si rinuncia al mondo materiale, così come lo concepiamo, o al mondo del pensiero e delle emozioni.
Molte tradizioni spingono verso la rinuncia materiale, e l’unico possesso di un monaco si riduce a una scatola contenente gli oggetti di prima necessità. È rinuncia? Ritengo di no, anche se è una pratica utile. È paragonabile al sentirci insoddisfatti se a cena non abbiamo avuto il dolce, e perciò decidiamo di rinunciare al dolce come mezzo per imparare qualcosa su noi stessi. In questo è una pratica utile.
Poi possiamo sentire che i nostri pensieri e le nostre emozioni non sono puri: “Devo essere capace di rinunciare a tutto ciò. Devo riuscire a sbarazzarmene. Ho pensieri ed emozioni orrendi”. Neppure questa è rinuncia, ma giocare con i concetti di buono e cattivo.
Alcuni arrivano allo sforzo finale. Delusi e insoddisfatti dalla vita quotidiana, prendiamo la decisione: “Cercherò la Realizzazione, vivrò una vita spirituale e rinuncerò a tutto”. Se ne comprendiamo il significato, è ottimo. Ma, tra i molti fraintendimenti della rinuncia, il più insidioso è in agguato nella cosiddetta spiritualità, in cui coltiviamo concetti come: “Devo essere puro, santo, diverso dagli altri, … isolarmi in un luogo remoto e tranquillo”. Neppure questa è vera rinuncia.
Cos’è allora la rinuncia? Esiste una cosa del genere? Forse possiamo capirla meglio usando il termine ‘non attaccamento’. Spesso equipariamo alla ‘rinuncia’ la manipolazione degli aspetti superficiali della nostra vita in una certa direzione, mentre in realtà non occorre ‘rinunciare’ a niente, basta capire che la vera rinuncia è identica al non attaccamento.
La pratica non sta nell’eliminare, ma nel vedere e comprendere ciò a cui siamo attaccati. Possiamo possedere una fortuna senza esservi attaccati, mentre possiamo non avere nulla ed essere attaccatissimi al fatto di non avere nulla. In genere, se abbiamo smascherato la natura dell’attaccamento, tendiamo a limitare i possessi, anche se non è questo il punto. Molte pratiche ristagnano in questa manipolazione della nostra mente e dell’ambiente. “Devo calmare la mente”. La mia mente non importa, ciò che importa è il non attaccamento alla sua attività. Le emozioni sono dannose, nel loro creare disarmonia, solo se ci dominano, cioè se ci siamo attaccati. La prima cosa da vedere nella pratica è il fatto che siamo attaccati. Continuando lo zazen con coerenza e pazienza, scopriamo a poco a poco che non siamo altro che attaccamenti. Sono gli attaccamenti ad avere in mano la nostra vita.
Un attaccamento non se ne va perché gli diciamo di andarsene. Solo divenendo consapevoli della sua vera natura, si dissolve tranquillamente e impercettibilmente come un castello di sabbia. Le onde lo lambiscono, lo coprono e… dov’è andato? Cos’era?
Il punto non è eliminare gli attaccamenti o rinunciarvi, ma comprenderne la natura: impermanente, effimera, vuota. Non occorre eliminare niente. I più insidiosi si rivelano gli attaccamenti a quelle che riteniamo le ‘verità’ spirituali, e si trasformano nell’ostacolo maggiore alla vera `spiritualità’. L’attaccamento a qualunque cosa impedisce la libertà e il vero amore.
Finché manteniamo un’immagine di come dovremmo essere, e di come dovrebbero essere gli altri, coltiviamo attaccamento. La vera vita spirituale è assenza di tutto ciò. “Studiare l’io è dimenticare l’io”, dice Dōgen Zenji.
– Da: Zen quotidiano. Amore e lavoro – Charlotte Joko Beck
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