Le immagini organiche della crescita si rifanno al simbolo preferito della vita umana, l’albero, ma io voglio capovolgere quell’albero. Il mio modello di crescita ha le radici nel cielo e immagina una graduale discesa verso le cose umane. Tale è l’albero della qabbalah della tradizione mistica ebraica e anche cristiana.
Lo Zohar, il testo canonico della letteratura qabbalistica, dice chiaramente che la discesa è dura; l’anima è restia a discendere e a contaminarsi col mondo.
«Al tempo in cui il Santo, sia benedetto il suo nome, era in procinto di creare il mondo, decise di foggiare tutte le anime da assegnare, a tempo debito, ai figli degli uomini, e ciascuna anima era formata secondo i contorni esatti del corpo che era destinata ad abitare … Ecco, ora va’, scendi nel tale luogo, entra nel tale corpo.»
«Ma il più delle volte l’anima obiettava: Signore del mondo, a me piace restare qui in questo regno, e non ho alcun desiderio di andarmene in un altro, dove sarò schiava e verrò contaminata.»
«Al che il Santo, sia benedetto il suo nome, rispondeva: Il tuo destino è, ed è sempre stato fin dal giorno in cui tu fosti formata, quello di andare in quel mondo.»
«Allora l’anima, vedendo che non poteva disubbidire, suo malgrado scendeva in questo mondo».
L’albero qabbalistico, nella forma elaborata in Spagna nel XIII secolo, vede i rami discendenti come le condizioni di vita dell’anima, vita che si fa più manifesta e visibile via via che l’anima discende. Secondo la recente interpretazione psicologica avanzata da Charles Ponce, tuttavia, più in basso arriva l’anima, più ci riesce difficile afferrare il significato delle sue manifestazioni. Le sfere e i simboli superiori sarebbero meno occulti di quelli relativi al mondo; «le gambe rimangono un enigma».
È facile vedere le conseguenze sul piano etico di questa immagine capovolta: l’immergersi dell’individuo nel mondo testimonia della discesa dello spirito. La virtù consisterebbe nel rivolgersi verso il basso, come nell’umiltà, nella carità, nell’insegnare, nel non essere superbi.
L’albero della qabbalah riprende due dei più durevoli miti della creazione della civiltà occidentale, quello biblico e quello platonico.
Dice la Bibbia che Dio impiegò sette giorni a creare tutto l’universo. Il primo giorno, come sappiamo, Dio affronta le grandi astrazioni e le operazioni più elevate, come separare la luce dalle tenebre, la prima modalità di orientamento. L’opera prosegue giù giù fino al quinto e al sesto giorno; soltanto allora si arriva alla molteplicità degli animali e infine all’uomo. La creazione procede all’ingiù, dal trascendente al brulicante qui dell’immanenza.
Il racconto platonico della discesa è il mito di Er, che riassumo qui dall’ultimo libro della Repubblica. Le anime, che provengono da vite precedenti e soggiornano in una sorta di aldilà, hanno ciascuna un destino da compiere, una parte assegnata (moira), che corrisponde in un certo senso al carattere di quell’anima.
Per esempio, racconta il mito, l’anima di Aiace Telamonio, il valoroso e irruente guerriero, scelse la vita di un leone, mentre quella di Atalanta, la vergine famosa per la velocità nella corsa, scelse il destino di un atleta e un’altra anima quello di un abile artigiano. L’anima di Ulisse, memore delle prove e dei travagli patiti, «e guarita di ogni ambizione, andò a lungo in giro alla ricerca di una vita di uomo solitario senza occupazione, e la trovò a stento, gettata in un canto e negletta dagli altri…»
«Quando tutte le anime si erano scelte la vita, secondo che era loro toccato, si presentavano davanti a Lachesi [lachos, “parte, porzione di destino”]. A ciascuna ella dava come compagno il genio [daimon] che quella si era assunto, perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto».
Il daimon conduce l’anima dalla seconda delle personificazioni del destino, Cloto [klotho, «filare, volgere il fuso»].
«Sotto la sua mano e il volgere del suo fuso, il destino [moira] prescelto è ratificato». (Gli viene impresso il suo particolare effetto?).
«… quindi il genio [daimon] conduceva l’anima alla filatura di Atropo [atropos, “che non si può volgere all’indietro, irreversibile”], per rendere irreversibile la trama del suo destino.»
«Di lì, senza voltarsi, l’anima passava ai piedi del trono di Necessità» (Ananke), o, come traducono alcuni, «del grembo» di Necessità.»
Dal testo non risulta chiaro in che cosa consista esattamente il kleros lasciato cadere ai piedi delle anime affinché ciascuna scelga il proprio. Il termine kleros può avere tre significati strettamente connessi: a) pezzo di terra, come il nostro lotto di terreno e, per estensione, b) lo spazio, la parte assegnata nell’ordine generale delle cose e c) eredità, ciò che per diritto ci viene in quanto eredi.
Io interpreto i kleroi del mito come immagini. Poiché ciascuno di essi è particolare e compendia lo stile di tutto un destino, l’anima percepirà intuitivamente un’immagine che abbraccia l’insieme di una vita tutto in una volta. E sceglierà l’immagine che la attrae: «Ecco quella che voglio, che è la mia giusta eredità». La mia anima sceglie l’immagine che io vivo. Il testo platonico chiama questa immagine della vita paradeigma, «modello», come viene di solito tradotto.
Dunque quella che ricevo è l’immagine che è la mia eredità, la porzione assegnatami nell’ordine del mondo, il mio posto sulla terra, condensata in un modello che è stato scelto dalla mia anima o, per meglio dire, che viene sempre, di continuo, scelto dalla mia anima, perché nelle equazioni del mito il tempo non entra. (« Il mito» scrive Sallustio, il filosofo latino del paganesimo, «non è mai accaduto, ma è sempre»).
(Da: “Il codice dell’anima”, James Hillman)
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