Una delle mie storie preferite appartiene alla tradizione sufi del misticismo islamico. È una favola che ci racconta esattamente quello che ci attenderà se tenteremo di imboccare la strada del desiderio.
Un uomo siede in mezzo alla piazza di un mercato mediorientale piangendo a dirotto davanti a un vassoio di peperoncini sparpagliati a terra. Ne afferra uno dopo l’altro senza sosta, con metodo, se lo mette in bocca e, mentre lo mastica deliberatamente, geme in modo incontrollabile. «Cos’hai, Nasruddin?» gli chiedono i suoi amici, attratti da quello spettacolo inconsueto. «Cosa c’è che non va?» Le lacrime scorrono lungo il viso di Nasruddin che farfuglia una risposta. «Ne sto cercando uno dolce» dice ansimando.
Una delle qualità più accattivanti di Nasruddin è la contraddizione. Come il desiderio stesso, le storie su Nasruddin mostrano sempre due aspetti. Nasruddin è uno sciocco, ma è anche un uomo saggio. Nelle sue azioni c’è un significato esplicito, che racchiude un certo tipo di insegnamento, e un significato implicito, che ne racchiude un altro.
Il primo significato salta subito agli occhi. È il messaggio fondamentale sia del buddhismo sia della teoria freudiana. Il desiderio non impara mai, non apre mai gli occhi. Anche quando non suscita altro che sofferenza, persevera. La nostra instancabile ricerca del piacere ci induce a continuare a compiere azioni estremamente bizzarre. Senza dubbio Nasruddin ci offre un modello esemplare della nostra vita: opponendoci alla corrente della delusione, noi seguitiamo a cercare un peperoncino dolce. Come i suoi amici si saranno chiesti, mentre lo fissavano increduli: non sarebbe meglio lasciar semplicemente perdere? In questa versione della storia, Nasruddin incarna un insegnamento spirituale tradizionale. I nostri desideri ci legano alla ruota della sofferenza. Pur sapendo che ci causano dolore, non possiamo convincerci a mollare la presa. Come Freud amava dire, c’è uno «iato incolmabile» tra il desiderio e la soddisfazione, un divario responsabile sia della nostra civiltà sia della nostra frustrazione.
Tuttavia, la perseveranza di Nasruddin è un indizio dell’impossibilità di abbandonare la nave. Dopotutto è un maestro illuminato, non un semplice folle. Che ci piaccia o no, sta dicendo: il desiderio non ci lascerà in pace. Nello spirito umano c’è una speranza che semplicemente non accetterà un no come risposta. Il desiderio ci fa andare avanti, anche quando ci prende in giro. Usando ancora le parole di Freud, è il desiderio «che esercita su di noi un’azione così perentoria», spingendoci a trovare e usare la nostra creatività, indirizzandoci verso un obiettivo irraggiungibile e tuttavia irresistibile.
La parabola di Nasruddin sull’insaziabilità del desiderio presenta sia la soluzione sia il problema. Il desiderio in lui è saldo, nonostante il dolore che gli provoca. Nel suo pianto inconsapevole, nella sua implicita accettazione dei rischi e delle promesse che il bramare comporta, si cela una saggezza racchiusa nelle insistenti esigenze del desiderio. Nasruddin non giustifica il suo desiderio; persiste imperturbato nonostante la sua evidente sofferenza. E neppure combatte contro le sue lacrime nel tentativo di scacciarle. Sia la tristezza sia la brama sono lasciate indisturbate. Pur consapevole della sua follia, Nasruddin non desiste. Sembra sapere che, nonostante le sue lacrime, esiste un piacere che viene dalla ricerca.
Questa storia mi piace per il modo in cui incarna la doppia natura –inquietante e irresistibile –del desiderio. In qualità di psichiatra e psicoterapeuta, ogni giorno mi confronto con pazienti dalle storie simili a quella di Nasruddin, che mettono ripetutamente in atto comportamenti che, da un punto di vista razionale, dovrebbero abbandonare. Le loro frustrazioni si riversano nel mio studio come le lacrime di Nasruddin. A volte sono tentato di rispondere come gli amici di Nasruddin e dire: «Perché non smettere, semplicemente?», «Perché non gettare la spugna e basta?». Da terapeuta, influenzato non soltanto dai princìpi della teoria psicodinamica, ma anche dalla saggezza della psicologia buddhista sarebbe facile per me assumere questa posizione. Senza dubbio una determinata lettura degli insegnamenti di Buddha suggerisce che l’unica soluzione alla sofferenza nevrotica risieda nel completo abbandono del desiderio. Gran parte del pensiero orientale si basa sull’idea che la rinuncia sia la chiave della crescita spirituale e psicologica. «Perché cercare il piacere se questa ricerca è causa di sofferenza?» domandano molti maestri orientali. Tuttavia, nel corso degli anni mi sono reso conto che, pur essendoci un tempo e un luogo per questo tipo di logica, il desiderio può rivelarsi tanto un importante alleato quanto un nemico.
(“Buddha, Freud e il desiderio”, Mark Epstein)
Mark Epstein è buddista e psichiatra con studio privato a New York.