La psicologia antica localizzava l’anima nella regione del cuore, dunque il nostro cuore custodisce l’immagine del nostro destino e ci chiama a esso. Per dipanare quell’immagine occorre tutta la vita. Se pure è percepita tutta in una volta, la si comprende solo lentamente. Sicché l’anima possiede un’immagine del proprio destino, che il tempo può rendere manifesta soltanto come «futuro». Che «futuro» sia dunque un altro nome per indicare il destino, e le nostre preoccupazioni circa «il futuro» fantasie del destino?
Prima di fare il loro ingresso nella vita umana, però, le anime attraversano la pianura del Lete (oblio, dimenticanza), sicché al loro arrivo sulla terra tutto ciò che è accaduto –la scelta delle vite e la discesa dal grembo di Necessità –viene cancellato. E’ in questa condizione di tabula rasa che noi veniamo al mondo. Abbiamo dimenticato tutta la storia, anche se rimane con noi il modello ineludibile e necessario del nostro destino e anche se il nostro compagno, il daimon, ricorda.
Plotino, il più grande dei filosofi del neoplatonismo, così sintetizza il mito platonico: «Il fatto di venire al mondo, di entrare in questo corpo particolare, di nascere da questi genitori e nel tal luogo, e in generale ciò che chiamiamo le condizioni esteriori della nostra vita … tutti gli eventi formano una unità e sono per così dire intessuti assieme».
Ciascuna anima è guidata da un daimon a quel particolare corpo e luogo, a quei dati genitori e condizioni di vita, per la forza di Necessità; ma noi non abbiamo il minimo sentore di tutto questo, perché il suo ricordo è stato cancellato nella pianura dell’oblio.
Secondo un’altra leggenda ebraica, la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell’anima la portiamo impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è l’impronta dell’indice che l’angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle, tutto ciò che resta a rammentarci il pregresso sodalizio dell’anima con il daimon; ed è per questo che, quando inseguiamo un’intuizione o un pensiero che sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa scannellatura. Immagini come queste ci colmano la mente di bellissime congetture, come hanno fatto per secoli.
Perché il passaggio davanti alla dea Necessità? E perché Dio si sofferma un intero giorno su mostri marini ed esseri striscianti, prima di por mente al genere umano? Siamo i migliori proprio perché gli ultimi? O siamo insignificanti, un ripensamento?
I miti cosmogonici ci situano nel mondo, ci coinvolgono nel mondo. Le cosmogonie moderne (big bang e buchi neri, antimateria e spazio curvo in continua espansione senza meta) ci lasciano nel terrore e nell’incomprensibilità priva di senso. Solo eventi casuali, niente davvero necessario. Le cosmogonie della scienza non parlano dell’anima e dunque non parlano all’anima, non le dicono nulla sulle ragioni della sua esistenza, come sia posta in essere, e quale sia la sua destinazione e quali i compiti da adempiere.
Le entità invisibili, che (noi questo sentiamo) intrecciano la nostra vita con qualcosa che va oltre la nostra vita, la scienza le ha rarefatte nell’invisibilità letterale di remote galassie o di onde. Non si possono conoscere né percepire perché la loro misura è il tempo e le nostre vite non sono che nanosecondi nell’immenso arazzo del mito della scienza. Che scopo possono avere? Le entità invisibili dell’universo fisico non possono essere conosciute né percepite, ma solo calcolate, perché sono lontane anni luce e perché sono, per definizione, indeterminate.
A questo proposito, vale la pena osservare come nella filosofia greca l’indeterminato, l’infinito (apeiron), sia generalmente considerato pura negatività, fondamento del male. Affidare alle scienze fisiche la spiegazione delle origini e delle ragioni ultime della nostra esistenza potrebbe non essere la strada giusta. Qualsiasi cosmogonia che parta con il piede sbagliato, non soltanto produrrà spiegazioni zoppicanti, potrebbe anche mutilare il nostro amore per la vita. Il mito della creazione di esseri casuali in uno spazio inimmaginabile mantiene l’anima occidentale sospesa in una stratosfera dove essa non può respirare.
Non sorprende che continuiamo a rivolgerci ad altri miti, come quello platonico di Er, il libro della Genesi, l’albero della qabbalah, i quali ci offrono racconti molto simili della realtà delle cose. Essi pongono nei miti il nostro fondamento e i miti si aprono giù giù fino alla nostra anima individuale.
In questo senso, Platone dice della sua «favola»: «Potrà salvare anche noi, se le crediamo».
(Da: “Il codice dell’anima”, James Hillman)
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