All’inizio la pratica equivale a trovarci in una via rumorosa e trafficata; non riusciamo a trovare un angolino tranquillo, il traffico invade tutto lo spazio. La reazione è di confusione e stordimento, che è poi il modo comune di percepire la vita. Siamo così occupati a schivare ciò che ci viene addosso che non abbiamo modo di considerare il fatto di essere intrappolati nel traffico. Poi, guardando meglio, vediamo che nella folle corsa si aprono qua e là dei varchi. Raggiungiamo il marciapiede e ci mettiamo in condizione di dare uno sguardo più obiettivo. Indipendentemente dalla frenesia del traffico, scorgiamo sempre nuovi spazi vuoti.
Il prossimo passo è entrare in un grattacielo e sporgerci dal terzo piano, osservando il traffico da quell’altezza. Ci appare già diverso, perché riusciamo a coglierne la direzione, il senso di marcia. Notiamo che, in certo modo, non ha nulla a che fare con noi: si limita a scorrere.
Salendo sempre più in alto, noteremo che il traffico segue degli schemi: hanno una certa bellezza, e non spaventano più. È ciò che è, e incominciamo a vederlo come uno straordinario panorama. Gli ingorghi diventano elementi del quadro complessivo, né buoni né cattivi, ma parte della vita. Dopo anni di pratica possiamo raggiungere un luogo da cui goderci quello che vediamo; ci godiamo noi stessi, ci godiamo ogni cosa esattamente così com’è. Vedendone l’impermanenza e il fluire ne possiamo godere senza farci prendere in trappola.
Saliamo ancora, fino allo stadio in cui diventiamo i testimoni della nostra stessa vita. Tutto trascorre e tutto è bello, perché niente ci imprigiona. Poi, giunti allo stadio finale, scendiamo di nuovo in strada, entriamo nel mercato, dritto nel mezzo della confusione. Vedendo la confusione per quello che è, ne siamo liberi. Possiamo amarla, goderla, servirla e la nostra vita diventa quello che è sempre stata: libera e svincolata.
(Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“)
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