Pratica e alienazione
In un racconto di Kafka si parla della Grande Muraglia, che correva lungo il confine settentrionale e occidentale della Cina per proteggerla dalle invasioni mongole. Nella storia – non so quanto questo corrisponda al vero – si narrano le vicissitudini delle persone che lavoravano alla costruzione del muro, costruzione durata anni e anni, attraverso intere generazioni. A quel tempo, naturalmente, le comunicazioni con la capitale erano difficili e lente. Non c’erano aerei, telefoni o posta elettronica. Occorrevano giorni o settimane di cammino per far pervenire un messaggio nelle lontane regioni dove si svolgevano i lavori. Le direttive del governo centrale, così, divennero sporadiche, finché in pratica a un certo momento cessò ogni forma di comunicazione. Tuttavia le persone impegnate alla costruzione del muro continuarono nella loro opera senza porsi troppi problemi, interessati e affascinati dai particolari architettonici e tecnici, colpiti dal modo in cui la Muraglia appariva esteriormente. E, in generale, le popolazioni di quei luoghi periferici continuavano tranquillamente la loro vita, occupandosi delle faccende di ogni giorno, senza sapere neppure chi fosse l’imperatore regnante e a quale dinastia appartenesse.
La parabola di Kafka porta con sé un tema che ricorre in tutta l’opera dello scrittore: l’impegno in determinate attività senza un’idea chiara del motivo per cui vengono svolte. Simili storie descrivono ciò che oggi chiameremmo una condizione di alienazione. Mi sembra che questa sia una tendenza così profondamente radicata nel comportamento umano, almeno nel comportamento dell’uomo moderno, da rischiare di coinvolgere anche la pratica della meditazione, che dovrebbe invece essere un modo per superare l’alienazione.
Parecchi sono approdati al buddhismo in seguito ad alcune domande molto profonde che cominciavano a nascere in loro e alle quali le tradizioni della cultura occidentale non riuscivano a dare una pronta risposta. Così sono arrivati a impegnarsi in una pratica come la meditazione di consapevolezza, partecipando a incontri di gruppo e diventando parti di una comunità che si riunisce regolarmente per praticare questa forma di meditazione. Molti di noi si possono riconoscere in questo tipo di percorso spirituale.
C’è però un pericolo: dopo un certo tempo ci si può abituare talmente a questa attività — sedere sul pavimento di una stanza o camminare lentamente su e giù oppure in circolo — che a volte l’attività stessa finisce per diventare totalmente ‘autogiustificantesi’. Ci accorgiamo a poco a poco, forse impercettibilmente, che non siamo più spinti dalle motivazioni pressanti che ci hanno guidato nella fase iniziale, ma frequentiamo il gruppo perché lo troviamo piacevole, perché vi incontriamo cari amici, perché fa parte della routine settimanale. In qualche modo ci troviamo distaccati dalle istanze primarie che ci avevano indotto a cominciare la pratica. Possiamo diventare sempre più competenti sia nella teoria che nella tecnica meditativa, possiamo partecipare a interessanti discussioni con altri membri del gruppo circa le differenze tra zen, vipassana, dzog-chen, diventare molto abili nell’osservazione del respiro o delle sensazioni. Ma è possibile che la nostra condizione sia per certi aspetti simile a quella delle persone che, nel racconto di Kafka, hanno perso ogni contatto con il comando centrale, e sono interessati solo ai dettagli e agli abbellimenti della muraglia.
La spinta a praticare
Facciamo un esempio per capire meglio. Immaginate di uscire per la strada domani verso l’ora di pranzo e di fermare delle persone a caso, raccontando loro ciò che abbiamo fatto qui stasera, descrivendolo così: “Sono entrato in una stanza, mi sono seduto, ho osservato il respiro, ho camminato in giro molto lentamente assieme ad altri che facevano le stesse cose”. Che cosa capirebbero le persone a cui lo dite? Quale sarebbe la loro reazione? Per quanto sia difficile oggigiorno fare delle previsioni, suppongo che molti penserebbero che siete un po’ matti, o che forse appartenete a qualche strana setta. Ma il punto che mi interessa sostenere è questo: il significato della meditazione non si trova in realtà nelle attività esterne a essa connesse. Si trova invece nel contesto più ampio che la comprende, che la precede o che la segue. Fondamentalmente il significato che diamo alla meditazione si trova nella risposta alla domanda: “Perché medito?”. Anche le persone che abbiamo ipotizzato di incontrare per strada ci chiederebbero probabilmente: “Ma perché lo fai?”. Quando cominciamo a rispondere a questa domanda, allora cominciamo a scoprire che il suo vero significato e la sua giustificazione si trovano nella relazione tra la pratica e la nostra vita nell’insieme, con le sue aspirazioni più profonde. Suppongo che tutti noi, se ci chiedessero: “Perché mediti, perché siedi qui osservando il respiro o cammini lentamente intorno alla stanza?” avremmo una risposta – che peraltro sarebbe diversa per ognuno – e potremmo dare un senso all’attività svolta.
Guardando alla meditazione in questo modo, mi sembra che emergano due punti importanti. Da una parte essa, come ogni tipo di pratica spirituale, è la risposta a una domanda che la vita ci pone. Forse la vita che facciamo ci rende agitati, disturbati, preoccupati, e la meditazione ci può sembrare un modo di affrontare l’agitazione e la preoccupazione. D’altra parte, forse essa risponde a una domanda più religiosa, o filosofica, come: “A che serve la mia vita? Chi sono?“. È probabile che la maggior parte di noi, che ci troviamo impegnati in un gruppo di meditazione, sia qui proprio in virtù di domande come queste, sia che siamo riusciti a formularle espressamente o meno. Solo in collegamento con domande fondamentali come queste la pratica mantiene un significato nel senso più profondo del termine. Infatti noi potremmo anche diventare estremamente esperti in ogni esercizio che ci viene insegnato: potremmo ad esempio sedere e osservare il respiro per dieci ore di seguito; potremmo essere del tutto consapevoli di ogni cosa che accade intorno a noi. Ma se una tale abilità è distaccata dalle domande vitali, essa resterà un’attività insensata.
Restare in contatto con la domanda fondamentale
Conosco persone che si sono trovate a frequentare un centro di Dharma per motivi diversi, come il fatto che il proprio partner lo frequentava, e avevano una buona capacità di mettere in pratica con successo le istruzioni date. Ma questo non significava in realtà ancora nulla. Soggettivamente, quando perdiamo il contatto con le domande fondamentali, sperimentiamo di solito un appiattirsi della pratica, che diventa meccanica e abitudinaria. E sebbene possiamo avere la soddisfazione di far parte del gruppo, di sentirci rilassati, di vedere le cose con maggior chiarezza, scopriamo che gli esercizi diventano un esempio di alienazione piuttosto che un modo per tenerci in contatto con ciò che realmente conta nella vita. Una situazione del genere diventa a volte un vero problema, se abbiamo investito molto in questo tipo di vita. Potrebbe darsi che nel gruppo ci siano i nostri migliori amici o che ci siano stati affidati incarichi di responsabilità, come suonare la campana o scrivere articoli per il bollettino. Esistono molti modi in cui il nostro ego viene rafforzato dalla nostra appartenenza a questo gruppo. Così ci troviamo in conflitto tra il desiderio di conservare alcuni vantaggi personali e sociali, e il fatto che la nostra attività non sia più un sostegno e una risposta alle domande esistenziali primarie. Al limite, possiamo ipotizzare una situazione come la mia: io ho fatto di questa attività la mia professione e sono per converso assolutamente ‘inimpiegabile’ al di fuori del contesto buddhista. Capite bene come sarebbe problematica una crisi come quella che ho descritto!
Tutto ciò ci richiama alla sfida di essere onesti con noi stessi. L’onestà principale sta proprio nel chiederci, mentre stiamo seduti qui o camminiamo nella stanza: “Perché lo sto facendo?“. E nel risponderci in modo da toccare le questioni veramente fondamentali. Anzi, per rendere più pratico questo suggerimento, vi propongo, se sentite che la meditazione sta diventando troppo meccanica o routinaria, di estendere la domanda all’intera seduta.
Quando avevo da poco compiuto vent’anni e praticavo con i maestri tibetani, mi si insegnava a meditare tutti i giorni sulla mia morte. Potrebbe sembrare una specie di autoflagellazione monastica. In realtà questo veniva inteso come un esercizio per tenere viva la domanda sul perché stavamo facendo quello che facevamo. Riflettendo sul fatto che la sola certezza davanti a noi è la nostra morte, e che essa può capitare in qualsiasi momento, riusciamo a focalizzare meglio l’attenzione su ciò che conta veramente. Possiamo riflettere un poco su questo punto, in modo da evocare un senso molto forte della nostra fragilità, della debolezza ed evanescenza della vita. Pensieri del genere potrebbero farci affondare nella depressione e nello sconforto, ma il paradosso è che invece ci procurano una specie di shock nel riconoscimento che siamo vivi.
È interessante anche chiedersi perché la gente creda che meditare e riflettere sulla morte sia un atteggiamento pessimistico, una negazione della vita. In realtà man mano che diventiamo più coscienti del fatto che la nostra vita finirà, la nostra consapevolezza che ora stiamo vivendo, respirando, provando sensazioni, diventa più acuta. E invece di pensare alla morte come a qualcosa che esiste separatamente, indipendentemente, riconosciamo che la vita e la morte sono semplicemente parte, in modo inestricabile, dello stesso fenomeno. Quando riconosciamo questo, possiamo chiederci con maggior chiarezza mentale: “Come mai sono qui? A che cosa serve che io stia qui?”. Nell’ambito buddhista, la pratica della meditazione è un modo molto diretto di rispondere a tali domande fondamentali sulla vita e sulla morte. Perciò, quando la nostra pratica diventa piuttosto meccanica, può essere utile sederci e chiederci: “Perché lo sto facendo?”. E forse dietro a questa domanda ce ne possiamo porre un’altra: “A che serve la mia vita, che senso ha la mia vita?”. Si può allora tenere viva la meditazione mantenendola costantemente collegata con la domanda che l’ha provocata inizialmente.
Il rischio del ‘tecnocentrismo’
Il secondo punto, a cui avevo accennato, è il contesto in cui inseriamo la pratica della meditazione. Credo sia molto comune in Occidente, ma anche in Asia, pensare alla meditazione come a una tecnica. Soprattutto in una società tecnologica è una tentazione forte. Sembra in un certo senso ovvio che la meditazione sia una tecnica con cui risolvere i nostri problemi. È interessante notare – non so se sia il caso anche nella lingua italiana, ma certo lo è in quella inglese – come i termini meditazione e pratica siano sinonimi. Guardare la meditazione in questo modo ci tenta, perché è tipico della nostra società contemporanea rapportarsi alle cose con un approccio di problem solving, mettendosi nella posizione privilegiata di chi appunto per mezzo della tecnica risolve le difficoltà. Per renderci conto meglio di questo atteggiamento mentale, possiamo considerare le fantasie su ciò che intendiamo con “avere successo nella meditazione”.
Naturalmente quando sediamo in meditazione dobbiamo solo osservare ciò che sorge nel momento presente e lasciar andare il resto, essere interamente qui e ora. Ma vi accorgerete che la mente genera ogni tipo di sogni ad occhi aperti: una delle fantasie più frequenti verso cui i frequentatori di centri spirituali possono essere trascinati è la fantasia dell’illuminazione. Immaginiamo di raggiungere una qualche grande visione mistica. Possiamo avere l’idea, magari solo inconsciamente, che se conseguiremo un grado sufficiente di esperienza nella tecnica meditativa, a un certo punto, improvvisamente, troveremo la soluzione definitiva per tutti i problemi della vita.
Non voglio peraltro essere troppo radicale: certo, c’è un importante elemento tecnico nella pratica, che possiamo imparare a sviluppare e in cui possiamo diventare esperti. Il pericolo è un’identificazione riduttiva della meditazione con questa abilità tecnica, ossia un’equazione in cui il lato tecnico esaurisca la meditazione. Se vogliamo capire meglio e dare un senso diverso alla nostra pratica, possiamo leggere alcuni dei primi discorsi del Buddha. In questi discorsi non vengono affrontati singoli problemi personali, non si dice: “Osservate il respiro, fate questo e quest’altro, uno, due, tre, centro!”. Invece il Buddha risponde alla molteplicità dell’uditorio con un linguaggio molto ricco e complesso, aiutando le persone, attraverso discussioni e descrizioni, a entrare in contatto con il proprio mondo interiore. Egli non si presenta come una sorta di tecnico spirituale. Quando descrive la pratica, che naturalmente equivale al sentiero, non parla di diventare esperti in un’area specifica della vita, ma di sviluppare una gamma di atteggiamenti e riflessioni e talenti riguardanti tutto ciò che si fa nella vita quotidiana.
La più famosa descrizione della pratica che fa il Buddha è l’enunciazione dell’ottuplice sentiero. Gli otto fattori si riferiscono al modo in cui vediamo noi stessi e il mondo di cui facciamo parte, sono il nostro fondamentale “essere nel mondo”, la nostra Weltanschauung. Essi hanno anche a che fare con il modo in cui formuliamo idee, specialmente con il modo in cui perveniamo a fare delle scelte etiche. Hanno a che fare con il coltivare ciò che è chiamato ‘retta parola’ e ‘retta azione’, e con tutto il nostro modo di interagire fisicamente con gli altri. Hanno a che fare col modo in cui usiamo le nostre risorse, con cui manteniamo la nostra famiglia. Comprendono le motivazioni che ci portano ad aderire a un certo modo di vivere. Solo a questo punto il Buddha menziona la consapevolezza, la concentrazione, lo sforzo eccetera. E la parola che noi traduciamo con ‘meditazione’, o almeno una delle parole che traduciamo così, bhavana, si riferisce al modo di comportarci in tutte le aree della nostra vita. Come si suole dire, la pratica, nel senso più ampio, non è riducibile a qualche sorta di tecnologia spirituale, ma riguarda l’educazione a vivere in un certo modo. Il che ci riporta ancora al punto da cui siamo partiti: il significato della meditazione, della consapevolezza, della concentrazione e così via si trova nel più vasto contesto di un modo di vivere. Il modo in cui vediamo noi stessi, il modo in cui agiamo nel mondo, il modo in cui parliamo, in cui ci guadagniamo da vivere: tutti questi fattori contribuiscono a far sì che la meditazione e la consapevolezza siano per noi significative.
Guardando le cose in quest’ottica, ci sono due modi per ricordarci come possiamo evitare che la meditazione diventi un altro aspetto della nostra condizione alienata. Il primo è continuare sempre a porci la domanda: “Perché lo faccio?”. Il secondo è chiederci: “In che misura la pratica meditativa è integrata con gli altri aspetti della mia vita?”.
La meditazione tende a diventare per noi alienante se perdiamo il contatto con la domanda da cui ha avuto origine o se non riusciamo a collegarla al contesto più ampio della nostra esistenza.
DOMANDA
Potresti dirci qual è la tua risposta personale alla domanda: “Perché medito?”.
RISPOSTA
È un’ottima domanda, ma sono riluttante a fornire una risposta semplicistica. Suggerisco piuttosto che ciascuno di noi faccia questa domanda a se stesso. A dire il vero, credo che la risposta per me vari continuamente. La cosa singolare, e forse un po’ strana, è che mi rendo conto di come tenere viva la domanda sia più importante che avere una risposta.
(Stephen Batchelor – Discorso tenuto a Roma il 9 giugno 1997 – a cura di Franca Zucalli)
– Stephen Batchelor (amazon)
– Stephen Batchelor (macrolibrarsi)
– https://it.wikipedia.org/wiki/Stephen_Batchelor
– https://www.stephenbatchelor.org
– Fonte