“Un giovane alla ricerca della saggezza spirituale si era posto sotto l’insegnamento di un famoso santone. Il saggio lo prese al proprio servizio personale, ma dopo qualche mese il giovane si lamentò di non avere ancora ricevuto alcun insegnamento. «Che dici mai!», esclamò il santo, «Quando mi portavi il riso, forse non lo mangiavo? Quando mi portavi il tè, forse non lo bevevo? Quando mi salutavi, non rispondevo al tuo saluto? Quando mai ho trascurato di impartirti il mio insegnamento?». «Temo di non capire», rispose il giovane completamente sconcertato. «Quando vuoi studiare la cosa», rispose il saggio, «studiala direttamente. Se cominci a pensarci sopra la perdi affatto di vista». […]
Quando capiamo realmente che siamo ciò che vediamo e sappiamo, non ce ne andiamo in giro per la campagna pensando: «Io sono tutto questo». C’è semplicemente tutto questo. […]
Possiamo solo tentare una filosofia razionale e descrittiva dell’universo, basata sul presupposto che siamo completamente separati da esso. Ma se noi e i nostri pensieri siamo parte di questo universo, non possiamo starne fuori e descriverli. Ecco perché è inevitabile che tutti i sistemi filosofici e teologici finiscano con l’andare in frantumi. Per ‘conoscere’ la realtà non puoi starne fuori e definirla; devi entrarci dentro, esserla, sentirla.
La filosofia speculativa, quale la conosciamo in Occidente, è quasi interamente un sintomo della psiche divisa, del tentativo dell’uomo di uscire da se stesso e dalla propria esperienza per verbalizzarla e definirla. […]
Ma la psiche indivisa è libera da questa tensione dovuta al tentativo di uscire sempre da se stessi e d’essere altrove dal qui e ora. […]
Se invece capiamo che viviamo in questo istante, che siamo davvero questo istante e nessun altro, […] è una danza e quando danziamo non abbiamo intenzione di andare in alcun luogo. Continuiamo a girare, ma senza l’illusione di inseguire qualcosa. […]
Scopo e significato del danzare è la danza. […] Non si esegue una sonata per raggiungere l’accordo finale” (pp. 66-69).
La pratica è quella semplice aderenza all’attimo e a ciò che esso chiede, comporta. Un’aderenza così prossima che il dialogo interiore, il fare filosofia anche pur della pratica stessa, il trasformare in teoria questo lavoro di semplicità conduce a un allontanamento dall’autentica natura, un uscire da quella sobrietà essenziale nella quale nessuno spazio si da tra te e il momento nel quale sei immerso. Sei immerso e in esso sei sciolto: tutto è quell’essere nel momento, di cui ogni pensarlo è un non esserlo, un non esserti. Il tuo immergerti nell’istante è infatti un immergerti in te – e qualsiasi idea su tutto ciò sarà una caduta nel mentale, un allontanamento dal reale.
– Da: La saggezza del dubbio – Alan W. Watts
– http://www.lameditazionecomevia.it
– http://www.scuoladifilosofiaorientale.it
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