“Immaginiamo che veniate […] a lamentarvi che la vostra mente divaga, e io dica: «Perfetto! È proprio quello che fa la mente!». Oppure che diciate che non vi riesce di impedire alla mente di divagare e io dica: «E allora? Lascia che divaghi!». In altre parole, e se smettessimo di pensare la pratica (meditativa – ndr) in termini di qualsivoglia obiettivo o di qualche sorta di autocontrollo?
[…] Non esiste nessuna natura interiore essenzialmente vera. Cosa c’è? Be’, c’è tutto! Oppure si potrebbe dire: «Questo momento». E quando diciamo: «Questo momento» intendiamo tutto ciò che sta accadendo, sia ciò che normalmente consideriamo ‘interno’, sia ciò che sta accadendo ‘all’esterno’. Vedete, la grande illusione è che ciò che siamo sia qualcosa che avviene privatamente nella nostra testa mente siamo qui seduti – che quell’esperienza interiore, soggettiva, sia il vero me.
[…] Quando smettiamo davvero di identificarci con l’esperienza interiore come il me reale, il fatto che i pensieri vadano e vengano mentre pratichiamo è sempre meno importante, sempre meno un ‘problema’. Lasciamoli arrivare, lasciamoli andare. Lasciamo che i rumori della strada ci arrivino all’orecchio; lasciamo che i pensieri ci arrivino nella mente. Stiamo soltanto seduti con tutto. Siamo soltanto tutto.
[…] Quando meditiamo vogliamo lasciare che tutti gli aspetti del corpo semplicemente si manifestino e si rendano disponibili al nostro spirito, il che significa inspirarli ed espirarli e sperimentarli pienamente. Pensiero, respiro ed emozioni sono tutto ciò che il nostro corpo sta facendo, momento per momento. La mia insegnante [(Charlotte Joko Beck)] riteneva che la sua formazione zen tradizionale le avesse insegnato a trattare le emozioni come un ostacolo alla pratica; pertanto nella sua lunga carriera aveva cercato di controbilanciare questa tendenza facendo invece dell’emozione il centro della pratica. L’emozione, o i suoi correlati nella tensione del corpo, non sono ciò che vogliamo provare mentre meditiamo. Vogliamo tutti inevitabilmente che la meditazione crei un’oasi di concentrazione o di calma. Possiamo davvero riuscire a ottenerla – naturalmente in modo passeggero – ma possiamo non renderci conto che raggiungendola abbiamo reso unidimensionale la nostra pratica.
Joko diceva sempre che lo zazen era come costruire un contenitore più grande, e ciò che era contenuto era principalmente l’emozione. Voleva che il contenitore dello zazen accogliesse tutte le cose dolorose, incasinate, inopportune, per sfuggire alle quali generalmente veniamo a fare la pratica. Sediamo immobili con ciò che siamo venuti per evitare.
[…] Quando siamo seduti immobili facciamo due cose. Primo, stare seduti diventa un contenitore; qualunque cosa sia accaduta, stiamo seduti immobili e la sentiamo. L’altra faccia della pratica è la quiete della non reattività. […]
In un modo o nell’altro torniamo alla fisicità dell’esperienza. Non stiamo cercando, in pratica, un modo per trascenderla, o sfuggirla, o creare una piccola oasi separata. È compito dell’insegnante non colludere con il profondo odio che le persone nutrono nei confronti del proprio corpo o della propria vita, soltanto perché chiamano questo odio spiritualità”.
Barry Magid, allievo di Joko Beck, è psicanalista e fondatore dello zendo The Ordinary Mind (New York).
(Da: Guida zen per non cercare la felicità – Barry Magid)
– Barry Magid – Macrolibrarsi
– Barry Magid – Amazon
– https://en.wikipedia.org/wiki/Barry_Magid
– Fonte lameditazionecomevia.it