“Essere in una buona postura, avere un portamento eretto verso la luce, respirare come l’oceano non è ancora la preghiera esicastica, gli disse Padre Serafino. Tu devi imparare ora a meditare come un uccello”, e lo condusse in una piccola cella accanto al suo eremitaggio dove vivevano due tortore. Il tubare di quelle bestioline gli parve dapprima incantevole, ma, dopo poco, cominciò a infastidirlo. In effetti sceglievano sempre il momento in cui cadeva dal sonno per tubare le più tenere effusioni. Chiese al vecchio monaco che cosa significava tutto ciò e se quella commedia doveva durare ancora a lungo. La montagna, l’oceano, il papavero li aveva accettati suo malgrado (per quanto si chiedesse che cosa vi fosse di cristiano in tutto ciò), ma proporgli adesso questo languido volatile come maestro di meditazione, era proprio troppo!
Padre Serafino gli spiegò che nell’Antico Testamento la meditazione è espressa con dei termini della radice “haga”, reso più sovente in greco da mélété – meletan, e in latino da meditari – meditatio. Nel suo senso primitivo la radice di questo termine significa “mormorare a mezza voce”. É usata parimenti per designare grida d’animali, ad esempio il ruggito del leone (Is 31, 4), il pigolio della rondine e il canto della colomba (Is 38, 14), ma anche il brontolio dell’orso. “Al monte Athos non ci sono orsi. É per questo che ti ho condotto dalle tortore, ma l’insegnamento è il medesimo. Bisogna meditare con la gola, non soltanto per accogliere il respiro, ma anche per mormorare, giorno e notte, il nome di Dio….
Quando sei felice, canterelli, quasi senza accorgertene qualche volta mormori parole senza significato, e quel mormorio fa vibrare tutto il tuo corpo di gioia semplice e serena. Meditare e mormorare come la tortora, lasciar salire in te quel canto che viene dal cuore, così come hai imparato a lasciar salire in te il profumo che viene dal fiore… Meditare è respirare… cantando. Senza troppo soffermarti per il momento sul suo significato, ti propongo di ripetere, mormorare, canticchiare, ciò che è nel cuore di tutti i monaci dell’Athos: Kyrie eleison, Kyrie eleison…».
Ciò non piaceva troppo al giovane filosofo. In occasione di certe messe di matrimonio o di funerale aveva già sentito quell’invocazione, tradotta con «Signore, pietà». Il monaco Serafino sorrise: «Sì, questo è uno dei significato di tale invocazione, ma ce ne sono ben altri. Vuol dire anche: “Signore, manda il tuo Spirito! Che la tua tenerezza sia su di me e su tutti, che il tuo Nome sia benedetto” ecc. Ma non cercare troppo di impadronirti del significato di questa invocazione, esso ti si rivelerà da sé. Per il momento sii sensibile e attento alla vibrazione che essa suscita nel tuo corpo e nel tuo cuore. Cerca di armonizzarla quietamente con il ritmo del tuo respiro. Quando i pensieri ti tormentano, ritorna dolcemente a quell’invocazione, respira più profondamente, tieniti diritto e immobile e incomincerai a conoscere un inizio di esichia, la pace che Dio dà senza lesinare a coloro che lo amano».
In capo ad alcuni giorni il Kyrie eleison gli divenne un poco più familiare. Lo accompagnava come il ronzio accompagna l’ape quando fa il miele. Non sempre lo ripeteva con le labbra. Allora il ronzio diventava più interiore e la sua vibrazione più profonda. Il Kyrie eleison, di cui aveva rinunziato a «cogliere» il senso, lo conduceva talvolta in un silenzio sconosciuto. Si ritrovava nello stato d’animo dell’apostolo Tommaso quando vide il Cristo risorto: Kyrie eleison, mio Signore e mio Dio. L’invocazione lo immergeva a poco a poco in un clima di rispetto intenso verso tutto ciò che esiste, ed anche di adorazione per ciò che è nascosto e si trova alla radice di ogni esistenza. Padre Serafino, allora, gli disse: «Adesso non sei lontano dal meditare come un uomo: debbo insegnarti la meditazione di Abramo».
(Da: L’Esicaismo, di Jean-Yves Leloup)
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