“Nella sua natura, lo Zen è l’arte di vedere nella propria natura. […]
Come la natura ha orrore per il vuoto, così lo Zen aborre tutto ciò che può inserirsi fra noi e i dati immediati dell’esperienza. Secondo lo Zen, se ci si riferisce ai fatti in quanto tali non esistono conflitti, come quello fra il finito e l’infinito o fra la carne e lo spirito. A base di codesti conflitti stanno distinzioni vane, tracciate fittiziamente dall’intelletto per i propri usi. […] Quando abbiamo fame mangiamo; quando abbiamo sonno ci stendiamo – in tutto ciò, che c’entra il finito o l’infinito? Non siamo forse completi, ciascuno in se stesso? La vita quale viene vissuta basta. Solo quando il potere disturbatore dell’intelletto interviene e cerca di ucciderla noi cessiamo di vivere e ci immaginiamo che qualcosa ci manchi. Si lasci in pace l’intelletto; utile nella sua propria sfera, esso non deve interferire nella corrente della vita. Se volete scrutare la vita, fatelo mentre fluisce e lasciamola fluire. In nessun caso se ne deve arrestare il flusso o immischiarsi in esso, perché nel punto in cui vi immergete le mani la sua trasparenza sarà alterata, esso cesserà di riflettere il volto che aveste fin dalle origini e che continuerete a portare sino alla fine dei tempi. […]
Come due specchi senza macchia si riflettono a vicenda, del pari il fatto e il nostro spirito debbono stare l’uno di fronte all’altro senza nulla che s’intrometta. È allora che si sarà capaci di cogliere il fatto nella sua realtà viva e vibrante.
Prima di tale momento, la libertà è una parola vuota. […] La verità ultima dello Zen è che a causa dell’ignoranza si è prodotta una frattura nel nostro essere; è che fin dagli inizi non è mai esistita una lotta fra il finito e l’infinito; è che proprio la pace che ora stiamo cercando con tanto ardore è già esistita in ogni tempo. […]
A Mu-chou (Bokuju), che visse verso la metà del IX secolo, una volta fu domandato: «Ogni giorno dobbiamo vestirci e mangiare – come liberarci da tutto ciò?». Il maestro rispose: «Noi ci vestiamo, noi mangiamo». «Non capisco» – fece l’altro. «Se non capisci, mettiti il vestito e mangia il tuo cibo», fu la risposta.
[…] La salvazione va cercata nello stesso finito, non essendovi un infinito separato dalle cose finite; se cercate qualcosa di trascendente, vi taglierete fuori da questo mondo di relatività, il che equivale a distruggervi. […] Per cui, mangiate e bevete, e trovate la vostra via verso la liberazione proprio in questo mangiare e bere. […] Il finito è l’infinito, e viceversa. […] L’errore consiste nel nostro spezzare in due cose distinte ciò che, in realtà, è assolutamente uno. La vita quale la viviamo è una, anche se la facciamo a pezzi applicandovi senza scrupoli il bisturi dell’intelletto. […]
La mente umana ordinariamente è piena di sciocchezze intellettuali e di detriti sentimentali di ogni specie. […] È essenzialmente a causa di questi aggregati che la nostra vita è miserabile e che noi soffriamo sentendoci schiavi. Ogni volta che vogliamo fare un movimento essi ci vincolano, ci soffocano, oscurano il nostro orizzonte spirituale. Desideriamo profondamente la naturalezza e la libertà, ma sembra come se non ci fosse dato raggiungerle”.
(Da: Saggi sul Buddhismo Zen, vol. 1, cap. I)
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– D. T. Suzuki (it.wikipedia)
– Fonte web