In Occidente è ormai consuetudine ritenere il buddhismo una religione “atea”, tuttavia, se si esaminano le fonti e le pratiche delle varie tradizioni buddhiste, risulta evidente che tale affermazione non corrisponde alla verità. Le concezioni buddhiste della divinità (devatâ) variano a seconda delle scuole, perciò, per potersene fare un’idea non settaria o comunque limitata, occorre prenderle in considerazione con una veduta d’insieme.
Alcuni sostengono che il culto delle divinità, se compare nella tradizione tardiva dei tantra, non trova però posto in quella più antica degli Anziani o Theravâda. Ma nel Visuddhimagga, un trattato del grande maestro theravâdin Buddhaghosa (sec. V), si insegna che uno dei metodi di meditazione consiste appunto nel “ricordo delle divinità”. (1)
Anzitutto va precisato che il termine deva, sebbene sia l’equivalente della parola dio, designa in generale varie categoria di esseri celesti, luminosi, angelici, analogamente al latino deus secondo l’antica concezione pagana. Quindi, per i buddhisti così come per gli hindu, esistono molte divinità, differenti tra loro per funzioni, capacità e livello evolutivo.
Nei testi del canone pâli (quello più antico) citati da Buddhaghosa si afferma che la meditazione sulle divinità deve servire a sviluppare in sé le qualità positive realizzate dalle divinità stesse. Infatti, qualunque essere umano realizzi in se stesso tali elevate qualità, dopo la morte può rinascere come divinità in uno dei tanti paradisi o dimensioni superiori. Dunque, in cosa consiste la meditazione sulle divinità?
Il devoto ricorda (anussati) le loro qualità speciali e, successivamente, le riconosce in se stesso: “in quel momento”, scrive Buddhaghosa, “la sua mente non è condizionata dall’avidità, dall’avversione o dall’illusione, bensì è caratterizzata dalla presenza della rettitudine, essendo ispirata dalle divinità”. Ciò significa che la coscienza del devoto “è ispirata dalle qualità speciali che sono simili a quelle delle divinità e che producono lo stato delle divinità”. Il ricordo delle divinità, praticato secondo questi principi, determina la purificazione della mente del devoto che così “diventa oggetto di attenzione amorevole da parte delle divinità. Egli ottiene una pienezza di fede ancora maggiore; è alquanto felice e gioioso, e se non procede più in alto, almeno è diretto verso un felice destino”.
Per andare oltre è necessario anche sviluppare la chiara visione (vipassanâ) della vera natura della realtà, come fece il Buddha Shâkyamuni che, pur avendo la capacità di dimorare in qualsiasi stato di deva, comprese profondamente la natura transitoria di tutte le dimensioni e la loro non separatezza. Allora, pure il Buddha storico – spesso chiamato “deva dei deva” – può diventare oggetto di meditazione se, ispirati dalle sue qualità, le si realizza in se stessi purificandosi da ciò che ne ostacola la piena manifestazione. A questo riguardo un testo citato nel Visuddhimagga recita così: “Il (Buddha) benedetto è tale in quanto è realizzato, pienamente illuminato, dotato di (chiara) visione e condotta (virtuosa), beato, conoscitore dei mondi, incomparabile guida dei discepoli, maestro dei deva e degli uomini, illuminato e benedetto”.
Il devoto che ricorda tali qualità del Buddha “ottiene pienezza di fede, consapevolezza, comprensione e merito; è alquanto felice e gioioso, conquista paura e terrore, è in grado di sopportare il dolore; sente d’essere alla presenza del Maestro; il suo corpo, quando il ricordo delle speciali qualità del Buddha è in lui, diventa degno di venerazione come un reliquiario; la sua mente tende verso il piano dei buddha; quando incontra un’occasione di trasgressione, egli ne sente vergogna come se fosse di fronte al Maestro; e se non procede più in alto, almeno è diretto verso un felice destino”. Anche in questo caso per andare oltre occorre la chiara visione.
Il culto buddhista delle divinità, considerate espressioni di buddha e bodhisattva, cresce straordinariamente nei testi sacri del tardo mahâyâna fino a raggiungere la piena fioritura nei tantra. Infatti, è in questa letteratura esoterica che vengono insegnati in modo sistematico e preciso vari metodi di meditazione sulle divinità, a seconda delle capacità e delle inclinazioni del praticante.
Nel primo sistema tantrico, detto kriyâ (rituale), la divinità è concepita come un padrone, mentre il devoto è il suo servo. Qui si dà molta importanza agli aspetti esteriori della pratica, per esempio: l’immagine concreta della divinità, gli oggetti rituali, l’esatta esecuzione del rito, il momento astrologico in cui viene compiuto, la dieta, la pulizia fisica e il cambio degli indumenti. Esistono diversi modi di praticare la meditazione kriyâ, tuttavia il principio generale del sistema elementare consiste nell’invocare la presenza della divinità davanti a sé, offrirle oblazioni sia visualizzate sia concrete (lumini, incenso, acqua, fiori, cibo, ecc.), richiedere la sua benedizione o potenziamento per la realizzazione del risveglio spirituale a beneficio di tutti gli esseri, consumare parte del cibo offerto e potenziato e, infine, dedicare i meriti della pratica a tutti gli esseri.
Nel caryâ-tantra la divinità è considerata come un amico o un’amica, oppure come un fratello o una sorella. Questo secondo sistema è anche chiamato ubhaya (duplice), perché dà importanza parimenti agli aspetti esteriori e a quelli interiori. Il principio generale di questi ultimi è la meditazione sulla pura energia o grazia, visualizzata come un flusso di luce che discende nel corpo del devoto. In questo modo egli pensa di realizzare in se stesso le qualità proprie della divinità fino a potersi identificare con essa.
Nello yoga-tantra si enfatizzano gli aspetti interiori, in particolare la meditazione sull’unione con la divinità. Qui il devoto immagina che la divinità entri in se stesso. Egli sente di essere una sola cosa con essa, perciò può agire come una divinità irradiando nel mondo, tramite la visualizzazione della luce e il potere del mantra, le qualità divine a beneficio di tutti gli esseri. Nondimeno, concludendo la meditazione, la divinità lo abbandona per ritornare alla propria dimora naturale, cosicché il devoto può solo immaginarsi simile alla divinità, finché non ripete la meditazione di identificazione.
Anche nel successivo sistema degli anuttara-yoga-tantra il devoto s’identifica con la divinità, ma ne riconosce la natura assoluta: essa non è altro che la propria essenza originaria, il fondamento universale, la causa unica di ogni cosa, la sorgente non nata della realtà, la coscienza illuminata (bodhicitta) creatrice di tutta l’esistenza, il Grande Sé, il Grande Sigillo, la Grande Completezza, il Buddha Perfetto. Suo simbolo supremo è lo spazio celeste, per natura puro e luminoso, senza confini e illimitato. Perciò, alla fine della meditazione, il praticante non immagina più che la divinità lo abbandoni. Egli ne dissolve la forma apparente per meditare sulla sua natura assoluta; però, subito dopo, immagina nuovamente di assumere la forma della divinità senza invocarla dall’esterno. Queste due fasi, creazione e dissoluzione, vanno ripetute alternandole, finché il praticante non realizza perfettamente la natura assoluta della divinità, dove tutte le immagini mentali si dissolvono definitivamente come le nuvole nel limpido cielo della coscienza illuminata, lo spirito puro e luminoso dei Buddha.
In Occidente siamo propensi a credere che un culto debba essere esclusivo, invece in Oriente è diffuso un atteggiamento religioso inclusivo. Ciò è evidente soprattutto nel tantrismo, dove si riconosce sia la specificità di ogni culto sia la loro essenza comune: gli aspetti specifici sono le qualità, il messaggio e i metodi particolari; gli aspetti universali sono i principi assoluti. Perciò il vero yogin tantrico non vede contraddizione nel praticare culti diversi, né ritiene inutile conoscere e applicare vari insegnamenti. Infatti, egli può seguire un solo tantra, oppure più tantra. Ogni tantra è come una bibbia inseparabile da una serie di iniziazioni che, in alcuni casi e per certi aspetti, sono simili a quelle cristiane.
Secondo molti maestri tibetani, un buddhista potrebbe venerare il Cristo e seguirne l’insegnamento, qualora ne riconoscesse sia il valore specifico sia la natura assoluta comune a tutti gli esseri illuminati. Allora, perché un cristiano non potrebbe venerare il Buddha, riconoscerne il valore autentico e metterne in pratica l’insegnamento?
Nel buddhismo si insegna che la mente umana è contagiata da una terribile malattia chiamata “dualismo”, ossia il senso di separazione, divisione o contrapposizione tra l’io e l’altro. È da qui che sorge la sofferenza presente ovunque nel mondo. Finché non troveremo il modo di guarirne, anche le religioni, anziché unire gli esseri umani, determineranno altre separazioni dualistiche, producendo così ulteriori sofferenze. A questo proposito, per concludere, riporto qui di seguito la trascrizione di una parte dell’insegnamento che ricevetti da Lama Jampel Dorje quando mi conferì l’iniziazione finale di Hevajra, una delle divinità principali degli anuttara-yoga-tantra.
Hevajra
Questa è la quarta iniziazione, l’introduzione diretta allo stato assoluto di Hevajra, alla pura essenza della tua coscienza, ciò che tutti gli esseri sono sin dal principio, la “natura di buddha”. In questa condizione spontanea di consapevolezza “non c’è colui che medita e neppure la meditazione, non c’è il mantra e neppure la divinità”, così insegna il tantra. (2) Infatti, tutta la realtà della trasmigrazione e della liberazione è pervasa dalla medesima essenza per natura pura e luminosa come lo spazio celeste. Allora, che senso ha meditare sull’immagine di una particolare divinità, separando colui che medita dall’oggetto di meditazione e dall’atto di meditare? Se con c’è una divinità su cui meditare, giacché tutta la vita ha la medesima natura divina, che senso ha recitare il suo mantra? Ogni parola è un mantra, perché è la voce della divinità presente in ciascuno di noi, l’energia della coscienza illuminata che sostiene la nostra vita, sia nel caso in cui la riconosciamo sia nel caso in cui non la riconosciamo.
Finché giudichi con la mente dualistica continui a separare la realtà in liberazione e trasmigrazione, buddha ed esseri ordinari, bene e male. Ma ora devi capire che tutto è uno, al di là di qualsiasi giudizio separativo. “Mantra e divinità sono essenzialmente indifferenziati”, così recita il tantra. Tu sei quell’essenza, tutta la vita lo è; perciò ogni suono è un mantra e ciascun essere è una divinità sin dal principio. È sufficiente non dimenticare questa verità fondamentale. La confusione, l’illusione, i conflitti, sorgono perché ci dimentichiamo ciò che noi siamo dall’origine.
Anche le differenti religioni hanno un’unica essenza, nonostante i termini diversi e i metodo peculiari. Tutte insegnano infatti l’esistenza di una realtà assoluta. Questa pura realtà “viene chiamata Vairocana, Akshobhya, Amoghasiddhi, Ratnasambhava, Ârolika e Sâttvika, (3) Brahmâ, Vishnu, Shiva, Sarva, Vibuddha e Tattva”, così afferma il tantra. Dunque, vedi che anche gli hindu hanno la vera rivelazione così come i buddhisti? Non separare più tra induismo e buddhismo, perché questa non era l’intenzione del Buddha. Non separare neppure queste religioni e quella in cui sei nato, perché il venerabile Gesù fu un’emanazione di Akshobhya e di Ârolika o Amitâbha, come anche un’incarnazione di Vishnu e Shiva.
Nella nostra tradizione tantrica esistono varie forme di culto dedicate a diverse divinità. Ogni tantra può essere considerata una religione in sé completa, anche se diversa da altre per alcuni aspetti peculiari. Il praticante tantrico può seguire un solo tantra per tutta la vita, però – come è consuetudine per la maggior parte dei lama – può anche essere iniziato a diversi tantra e praticarli tutti senza contrapporli l’uno l’altro, né confonderne le caratteristiche peculiari.
Io ho ricevuto l’iniziazione di Mañjushrî, la divinità della saggezza; di Avalokiteshvara, la divinità della compassione; di Vajrapâni, la divinità della forza; di Hevajra, la divinità dell’unione maschile e femminile – tanto per citare soltanto alcune tra le più note. Ogni divinità ha caratteristiche specifiche, eppure la loro essenza è la medesima; per questo quando meditavo su una divinità la contemplavo come l’unione di tutte le divinità. Ora anche tu considera Hevajra e ogni altra divinità allo stesso modo.
Se i capi spirituali delle religioni possedessero la saggezza dei veri grandi maestri tantrici, avrebbero in mano la chiave di una meravigliosa rivoluzione spirituale. La chiave di cui sto parlando è la consapevolezza dell’unità essenziale di tutti gli esseri e, quindi, anche delle loro religioni. So che oggi molti sono convinti di possederla – e può essere vero – ma non tutti sanno usarla correttamente, infatti non riescono ad aprire il tesoro della coscienza illuminata. Cosa manca loro? Il vero amore per tutta l’umanità.
Se un cristiano, o chiunque altro, avesse questa saggezza e questo amore, considererebbe sia le varie confessioni della sua religione sia le tradizioni delle altre religioni con la medesima visione non separativa che il primo maestro del Hevajratantra ebbe riguardo alle religioni indiane. Una tale persona saprebbe apprezzare le differenze di ogni tradizione spirituale in quanto ricchezze da condividere, senza nel contempo perdere di vista l’essenza comune che costituisce la loro sorgente unica: la vera divinità assoluta, paragonabile allo spazio celeste privo di limiti. Chi ha questa comprensione può ben considerarsi un praticante di tutte le religioni, e può anche essere considerato un loro maestro, ma proprio per questo rimane libero dalle loro limitazioni.
Le istituzioni religiose sono come la tazza da cui hai bevuto il nettare dell’iniziazione; la sapienza delle diverse religioni è la consapevolezza dell’unico sapore del nettare, la vera natura della divinità, senza confini, al di là di tutte le forme, i nomi, i concetti, eppure onnipresente. Sarà soltanto condividendo con amore questo nettare – da qualunque tazza sia servito – che gli umani potranno arrivare consapevolmente a essere uno e, finalmente, trascendere l’illusione della morte.
(1) Vedi Buddhaghosa (trad. Bhikkhu Ñânamoli), The Path of Purification (Visuddhimagga), Buddhist Publication Society, Kandy 1991, pp. 221-224. Cfr. Amadeo Solé-Leris, La meditazione buddhista, Oscar Mondadori, Milano 1988, pp. 49-51.
(2) La traduzione dal tibetano delle citazioni del Hevajra fatte dal lama è tratta dal mio lavoro sul tantra. Cfr. David. L. Snellgrove, The Hevajra Tantra, Oxford University Press, London 1980, parte I, p. 61
(3) Ârolika e Sâttvika stanno rispettivamente per Amitâbha e Vajrasattva.
– Da: “Il culto dei deva nel buddhismo”, in Occidente Buddhista, n. 21, 1997, pp. 53-57. Riprodotto con adattamenti.
– Buddhismo & Meditazione –