D: Il paradosso non è giustamente il capitolare del processo del pensiero, la porta aperta al non-pensiero? Non c’è dunque da rimettere in causa il pensiero, ma di portarlo fino al suo termine.
Eric Baret: Si. Portare il pensiero alla sua fine, mostrargli che non può pensare che in termini di opposti e di senso. Non c’è pensiero astratto: ogni pensiero si fonda su una immagine sensoriale.
Quando lo comprendete, quando cercate di pensare chi pensa, ad un certo momento vedete il paradosso e capite, in modo non mentale, che ciò che deve essere visto, trovato, non è qualcosa che si trova davanti al pensatore ma dietro.
E’ il pensatore che deve essere visto. Il pensiero non può vedere niente.
Il pensiero non esiste; è un dinamismo, un impulso. In un solo istante, voi vedete il dinamismo del pensare, questo dinamismo di andare verso qualcosa, e vi rendete conto che voi siete spazio, il luogo ove sorge e ove si riassorbe questo dinamismo. Non c’è più la minima intenzione di non pensare, come è sostenuto in certe scuole, né di pensare, come si invita in altre. Il pensiero c’è, il pensiero non c’è, assenza, presenza: resta questa disponibilità. Ma il pensiero deve essere portato verso questa porta dove esso vede il suo limite. Allora arriva una forma di tranquillità.
Quando il pensiero si rende conto di essere impotente, trova il suo riposo. […]
La bellezza, l’emozione, la gioia, l’amore, la sofferenza, la tristezza sono al di là del pensiero. Il pensiero non può nulla. Il pensiero sorgerà di tanto in tanto, per domandare l’ora, ma nei momenti di intimità non c’è pensiero.
– Eric Baret –