In auto, fra le colline, mi resi conto che stava succedendo qualcosa a Bhagavan Das. Gli colavano le lacrime e cantava a sguarciagola inni sacri. Mi rifugiai in un angolo del sedile tenendogli il broncio. Credevo di essere buddhista e non volevo vedere un guru induista.
Giungemmo in un piccolo tempio ai lati della strada; Bhagavan Das chiese dove si trovasse il guru. Dissero che Maharaj-ji era in collina. Lui si diresse in fretta verso le alture e mi lasciò lì.
Tutti mi guardavano speranzosi. Io non sapevo cosa fare.
Non volevo essere lì, né desideravo visitare un guru. Alla fine, pressato dalla situazione, e non per mia volontà, lo seguii. Salendo il pendio, inciampai dietro quel gigante che correva a grandi balzi, sempre piangendo.
Arrivati in cima, aggirammo un bellissimo campicello invisibile dalla strada, proprio sopra la vallata. In mezzo al campo, c’era un ometto anziano sotto un albero, seduto su un letto ligneo e avvolto in una coperta. Dieci o quindici indiani con abiti bianchi si erano accomodati sull’erba, attorno a lui. Sullo sfondo c’erano le nuvole, era un quadro bellissimo. Io ero troppo teso per apprezzarlo. Pensai che fosse una sorta di culto.
Bhagavan Das si precipitò in quella direzione e si prostrò (danda pranamm), sdraiandosi con la faccia a terra, e con le mani toccava le dita dei piedi del vegliardo. Ancora singhiozzava, e l’uomo gli accarezzò la testa.
Non sapevo che fare. Pensavo fossero pazzi. Mi tenevo in disparte e mi dicevo: «Be’, ormai sono qui; comunque non toccherò i piedi a nessuno». Non sapevo cosa stesse succedendo. Ero sospettoso, in paranoia.
Il vecchio stava consolando Bhagavan Das con dei colpetti sulla nuca, dopodiché alzò lo sguardo su di me. Sollevò il viso di Bhagavan Das e gli disse in hindi: «Hai una mia foto?», al che il mio amico rispose affermativamente, tra le lacrime. Maharaj-ji lo esortò: «Dagliela».
Pensai: «Caspita, una cosa gentile, il vecchietto vuole darmi una sua immagine». Era la prima ricompensa egoica che ricevevo in quella giornata. Ne avevo davvero bisogno.
Maharaj-ji mi guardò ed esclamò qualcosa che fu tradotta così: «Sei venuto con un macchinone?». Sorrideva.
Era un argomento di cui non volevo parlare. Avevamo preso in prestito l’auto dal nostro amico. Ne sentivo la responsabilità.
Ancora col sorriso sulle labbra, Maharaj-ji aggiunse: «Non vuoi regalarmela?».
Abbozzai dicendo che non era mia, ma Bhagavan Das m’interruppe e affermò: «Maharaj-ji, è tua se la vuoi».
Farfugliai: «Non possiamo dargliela! Non è nostra!».
Maharaj-ji mi fissò e disse: «In America, guadagni molti soldi?».
Forse immaginava che tutti gli americani sono ricchi. «Sì, una volta guadagnavo un sacco di denaro».
«Quanto?».
«Un anno raggranellai 25.000 dollari».
Tutti calcolarono a quanto corrispondesse in rupie, in effetti era una bella sommetta. Maharaj-ji continuò: «Sei disposto a comprare un’auto così per me?».
In quel momento pensai di non aver mai subito una pressione simile in vita mia. Ero cresciuto fra le associazioni ebraiche di beneficenza, e sapevamo come spillare soldi agli altri. Ma non eravamo bravi come lui.
Cioè, lo avevo appena conosciuto e già mi chiedeva una macchina da 7000 dollari. Replicai: «Uhm, forse».
Nel frattempo, insisteva a sorridermi. Mi girava la testa. Ridevano tutti perché capivano che mi stava prendendo in giro, anche se io non ne ero consapevole.
Poi disse che dovevamo andare a prendere prasad, il cibo. Ci accompagnarono in un tempietto e ci trattarono da re, porgendoci le buonissime pietanze e indicandoci dove accomodarci. Tutto accadeva sui monti: niente telefoni, niente luci, nulla.
In seguito, ci riportarono da Maharaj-ji, il quale mi invitò: «Vieni, mettiti seduto». Mi guardò e soggiunse: «Ieri sera eri all’aperto, sotto le stelle».
«Sì».
Proseguì: «Hai pensato a tua madre».
«Uhm…, sì».
«È morta l’anno scorso?».
«Esatto».
«Prima di morire aveva la pancia gonfia».
«Sì».
«La milza. È morta per via della milza». Disse la parola in inglese e, mentre pronunciava «milza», mi guardava dritto negli occhi.
In quel momento, avvennero simultaneamente due cose.
In primo luogo, la mia razionalità andò in tilt come un flipper: cercava disperatamente di comprendere come avesse fatto a saperlo.
Immaginai ogni scenario possibile legato alle paranoie sulla CIA, per esempio: «Mi hanno portato qui, tutto fa parte della loro manipolazione mentale. Oppure lui ha questo dossier su di me. Ma per la miseria, è eccezionale! Come poteva saperlo? Non l’ho rivelato a nessuno, nemmeno a Bhagavan Das…», ecc.
Eppure, indipendentemente da queste esagerazioni, la mia mente non riusciva a capacitarsene. Non era nel manuale di istruzioni. La cosa trascendeva le mie fantasie più paranoiche, e devo dire che non mi manca certo l’immaginazione…
Fino ad allora avevo un’idea sensata su qualsiasi cosa riguardasse lo psichismo o i fenomeni soprannaturali.
Se fossi venuto a conoscenza di qualcosa del genere, mi sarei comportato come qualunque scienziato di Harvard: « Veramente interessante. Occorre tenere la mente aperta su questi fenomeni. Si stanno svolgendo ricerche interessanti in questo campo. Approfondiremo la questione».
Oppure, se l’LSD mi avesse reso euforico, in quanto osservatore avrei detto: «Come faccio a sapere se non sono io a creare tutto questo dal quadro generale?». Però non ero sotto l’influsso di alcuna sostanza e quel vegliardo aveva appena pronunciato la parola «milza». In inglese. Come diavolo aveva fatto a saperlo?
Il mio cervello elaborava le nozioni sempre più freneticamente per capire come mai Maharaj-ji lo sapesse.
Infine, come in un’animazione digitale di fronte a un problema insolubile, suonò il campanello, si accese la luce rossa e il computer si spense. La mia razionalità rinunciava. Era andata in tilt.
In secondo luogo, avvertii nello stesso momento una fitta violenta e dolorosa nel petto, poi iniziai a piangere. In seguito, compresi che era il mio quarto chakra, il centro del cuore, che si apriva.
Guardai Maharaj-ji, che ricambiava il mio sguardo con un’espressione di amore totale. Mi resi conto che sapeva tutto di me, anche le cose di cui mi vergognavo, eppure non mi giudicava. Mi stava soltanto dimostrando amore incondizionato.
Piansi, gemetti, piansi a lungo. Non ero triste né felice. La cosa più azzeccata che possa dire è che piansi perché mi sentivo a casa. Avevo portato il mio grande peso sulla collina, ora era tutto compiuto. Il viaggio era finito, avevo terminato la mia ricerca.
Sparirono tutte le paranoie, e qualsiasi altra cosa. Mi rimaneva soltanto una fantastica sensazione di pace e amore. Mi trovavo alla presenza viva dell’amore incondizionato di Maharaj-ji.
Nessuno mi aveva mai amato in modo così completo. Da quel momento, non volevo fare altro che toccare i suoi piedi.
Poi mi diede un nome spirituale, Ram Dass, che significa «servo di Dio» (Rama è una delle incarnazioni induiste di Dio, Dass vuol dire «servitore»). Inoltre, mi affidò a Hari Dass Babà, colui che mi avrebbe insegnato lo yoga e la rinuncia nei successivi cinque mesi.
(Da “Al di Là dello Specchio” di Ram Dass)
– Ram Dass (amazon)
– Ram Dass (macrolibrarsi)
– Richard Alpert, meglio conosciuto come Ram Dass (it.wikipedia)
– Fonte