Lo zen è una via di autenticità e di risveglio, nata dall’esperienza del Buddha Sâkyamuni.
Chiamato anche Gautama, il Buddha visse in India settentrionale alcuni secoli prima di Cristo. Era della casta dei guerrieri, e del clan dei Sâkya. E pare fosse destinato a diventar re. Ma una notte, turbato dalle sofferenze del mondo, abbandonò il suo palazzo per diventare un asceta errante. Dopo sei anni di mortificazioni, rinunciò all’ascetismo, e si fabbricò un cuscino di erba, dove si sedette, dritto, con le gambe incrociate nella posizione del loto. Dopo una notte di meditazione, nel momento in cui contemplava la stella del mattino che sbiancava nel cielo, la Realtà gli apparve con chiarezza. Esclamò allora: “Io e tutti gli esseri della terra intera, simultaneamente, abbiamo realizzato il risveglio”. Era diventato il Mahâmuni, il “Grande Saggio”, o più comunemente il Sakyamuni, “il Saggio dei Sâkya”. Si alzò e andò a insegnare agli uomini per quarantacinque anni.
Lo zen in quanto scuola indipendente appare in Cina intorno al sesto e settimo secolo dopo Cristo, e fa parte della corrente del Grande Veicolo. Due o tre secoli prima, un misterioso monaco indiano, il mitico Bodhidharma, si sarebbe ritirato in una grotta a Shaolin e avrebbe portato, si dice, il fiore dello zen in estremo oriente. Gli è attribuito un poema:
Son venuto sulla terra, all’origine
Per trasmettere insegnamenti, salvar chi è perso.
Un fiore a cinque petali s’apre.
Il fiore matura – naturalmente.
E infatti furono cinque le scuole a fiorire nell’epoca T’ang (608-907), poi Song (960-1127). Le scuole Linji e Caodong – dette Rinzai e Sôtô, alla giapponese – sono le più conosciute. Lo zen fu trasmesso in seguito in tutti i paesi esposti all’influenza cinese, in Corea, in Vietnam e anche in Tibet.
Come alcuni altri monaci giapponesi, Dôgen (1200-1253) visitò i grandi monasteri della costa orientale della Cina riportando a casa la semenza dello zen. Qualche generazione dopo, lo zen sarebbe diventato una delle principali scuole buddiste giapponesi.
Lo zen non è né ginnastica, né una tecnica di benessere. Per colui che si consacra alla via dello zen, si tratta di vivere totalmente, col corpo e lo spirito; di impegnarsi a occuparsi di sé come del prossimo; di impegnarsi a confrontarsi con le sue paure e le sue nevrosi.
Secondo una formula classica, la pratica dello zen consiste nel “risolvere il grande affare della vita e della morte” (Sûtra del loto). Siamo tutti confrontati dalle questioni fondamentali: la sofferenza, lo sconforto, la morte: nostre e degli altri. Sono problemi che ci logorano veramente, e che il buddhismo affronta di petto.
L’esperienza dello zen riposa sull’approfondimento simultaneo delle tre pratiche della meditazione, dell’intelligenza e dell’etica (che corrispondono ai termini sanscriti di dhyâna, prajñâ e sîla).
Insegnare il silenzio interiore, far tacere le lotte e i conflitti era il grande progetto del Buddha per gli uomini. La meditazione è la pratica di questo silenzio. Il Buddha Sâkyamuni ha esclamato: “Io e tutti gli esseri della terra intera, simultaneamente, abbiamo realizzato il risveglio”. Ciò significa che il mondo intero, noi stessi, siamo – all’origine – in pace. Praticare la meditazione è realizzare e vivere questa pace.
Misteriosamente, la meditazione non ci dà niente, eppure cambia tutto. Sconvolti dalla scoperta di questa pace, rivisitiamo ognuno dei nostri singoli gesti con intelligenza. I quali sprigionano naturalmente tenerezza, bontà e bellezza. L’etica, parola che esprime la giustezza dei nostri atti, manifesta questa stessa intelligenza, che si realizza pienamente nell’amore e nella compassione. E’, questa, l’etica dei bodhisattva: non fare il male, fare il bene e aiutare gli altri. Principi belli e semplici, eppure così difficili da mettere in pratica…
Da una quarantina d’anni, il seme dello zen è stato gettato in Occidente. Tanti sono i fiori che da allora sono sbocciati. Sta a noi coglierli.
(Versione italiana di Mauro G. A. Rosi)
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