In che modo si può coltivare la capacità di apprezzare la solitudine? Con l’attenzione e una conversazione rispettosa.
I bambini sviluppano la capacità di vivere la solitudine in presenza di un adulto che si dimostri attento. Pensiamo ai momenti di silenzio che si creano quando portiamo un bambino a fare una tranquilla passeggiata nella natura. Il bambino inizia a sentirsi sempre più consapevole di che cosa significhi essere da soli nella natura, sapendo tuttavia di essere «con» qualcuno che lo sostiene e lo introduce a quell’esperienza. Gradualmente, quel bambino comincerà a fare le sue passeggiate in solitudine. Oppure, immaginiamo una mamma che fa il bagnetto alla figlia di due anni, lasciando che la bimbetta fantastichi con i suoi giocattoli da bagno mentre si racconta delle storie e impara a stare da sola con i suoi pensieri, sapendo però per tutto il tempo che la mamma è presente e a sua disposizione. Gradualmente, il bagnetto diventerà di per sé un momento in cui la bimba si sentirà a proprio agio con la sua immaginazione. L’affetto rende possibile vivere la solitudine.
Iniziamo così ad abituarci a essere «soli con», e, se tutto andrà per il meglio, finiremo per avere un Io popolato da coloro che più hanno contato nella nostra vita. Hannah Arendt descrive la persona solitaria come un individuo libero di farsi compagnia da solo. Anzi, non è solo, visto che è sempre accompagnato, è «insieme con sé stesso». Per la Arendt, «la riflessione, in senso stretto, si svolge in solitudine ed è un dialogo fra me e me; ma questo dialogo del “due-in-uno” non perde il contatto col mondo dei suoi simili, perché essi sono rappresentati nell’io con cui conduco il dialogo del pensiero».
Paul Tillich ci offre una bellissima precisazione: «La nostra lingua ha sentito sapientemente questi due aspetti dello stato d’isolamento dell’uomo. Ha creato la parola isolamento per esprimere il dolore di essere solo. E ha creato la parola solitudine per esprimere la gloria di essere solo ». L’isolamento è doloroso, emotivamente e anche fisicamente, e nasce da una «mancanza di intimità» nella prima infanzia, quando ne abbiamo più bisogno; la solitudine, invece, cioè la capacità di sentirsi soddisfatti e costruttivi anche da soli, nasce da legami umani vissuti positivamente in quello stesso momento del nostro sviluppo evolutivo. Se però non conosciamo l’esperienza della solitudine – ed è ciò che capita spesso oggi – cominciamo a mettere sullo stesso piano isolamento e solitudine, e in questo si riflette direttamente l’impoverimento della nostra esperienza. Se non abbiamo apprezzato l’appagamento della solitudine, conosciamo soltanto il panico dell’isolamento.
Recentemente, stavo lavorando sul mio computer durante un viaggio in treno da Boston a New York, attraverso un paesaggio innevato del Connecticut. Forse nemmeno mi sarei accorta del panorama se non avessi alzato lo sguardo mentre mi dirigevo verso il vagone ristorante per prendere un caffè. In quello stesso momento notai che tutti gli altri adulti sul treno avevano lo sguardo fisso sullo schermo di un computer. Allo stesso modo, ci neghiamo i benefici della solitudine perché consideriamo il tempo che essa richiede come una risorsa da sfruttare. Anziché impiegare quel tempo da soli per pensare (oppure non pensare), ci affrettiamo a riempirlo con una connessione online.
E purtroppo induciamo i nostri figli a vivere nello stesso modo. Sul treno Boston – New York anche i bambini avevano i loro dispositivi, tablet e telefoni. Come ho già detto, ricorriamo al «passalo dietro» per placare i bambini che dicono di annoiarsi, il che significa che non stiamo insegnando loro che la noia può essere interpretata come il richiamo della loro immaginazione.
Naturalmente, qualsiasi quadro eccessivamente poetico della solitudine necessita di correzioni. E vero che la solitudine può portarci all’empatia e alla creatività, ma di certo non sempre ci fa sentire bene. Se leggiamo il poeta Rainer Maria Rilke, «apertura, pazienza, ricettività, la solitudine è tutto ». Eppure, come Louis C. K. sembra aver compreso, Rilke affrontò tutta la difficoltà della solitudine: «E non dovete lasciarvi sviare nella vostra solitudine perché qualcosa dentro di voi desidera uscirne». In effetti, le ricerche rivelano che gli adolescenti vivono la solitudine come dei tempi morti, che nel breve periodo possono anche risultare dolorosi. Nel lungo periodo, tuttavia, essa facilita un sano sviluppo della personalità. Senza la solitudine, trascorrendo giorni e notti di ininterrotte connessioni, potremmo anche sperimentare quei «momenti arricchiti» di cui ho già parlato, ma vivere una «vita impoverita».
Quando chiedo a bambini e ragazzi del tempo che trascorrono da soli, nella calma dei loro pensieri, mi rispondono perlopiù che non sono momenti che amano cercare: non appena si ritrovano da soli, la loro mano corre al cellulare. Non importa dove si trovino. La maggior parte va perfino a dormire con il telefonino, per cui, se capita loro di svegliarsi nel bel mezzo della notte, pensano bene di dare un’occhiata ai nuovi messaggi ricevuti. Non fanno mai una passeggiata senza i loro telefoni. Trascorrere del tempo in solitudine, mi dice la maggior parte di loro, non è qualcosa che i loro genitori gli abbiano insegnato ad apprezzare. Eppure, se abbiamo a cuore la solitudine, dobbiamo trasmetterlo ai nostri figli, poiché di loro iniziativa non andranno mai a cercarla. Più che raccontare ai nostri figli che noi apprezziamo la solitudine, dobbiamo mostrare loro che pensiamo sia importante perché ci permette di scoprire qualcosa per noi stessi.
(Da: Sherry Turkle, “La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale“)
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