La monumentale opera di Panikkar, come accade a tutti coloro che percorrono sentieri non battuti, presta il fianco a critiche, precisazioni, prolungamenti. Ma una cosa è certa: il suo è un pensiero che, per le esperienze da cui parte, avrà un grande avvenire.
Quello che colpisce, scorrendo l’opera di Panikkar, non è soltanto la vastità della sua produzione (più di duecento libri) o la molteplicità dei suoi interessi, che vanno dalla filosofia alla scienza, dalla storia delle religioni alla politica, ma la sensazione che ciò che egli scrive nasca dalla sua vita e coincida con quello che egli è. Paradossalmente le sue opere sono tutte biografiche, esprimono cioè la sua vita profonda e le sfide con le quali si è dovuto confrontare.
La prima, e forse la più decisiva, è stata quella di ricomporre la sua duplice appartenenza, al mondo occidentale e cristiano ereditato dalla madre, e a quello indiano e induista ricevuto dal padre. I diciotto anni trascorsi in India a Varanasi gli hanno permesso di addentrarsi nella comprensione dell’induismo e del buddhismo, con l’atteggiamento non dello studioso asettico, ma dell’autentico contemplativo che rischia la propria vita. L’esito di questa incarnazione nella cultura degli altri Panikkar l’ha ricapitolato in una espressione emblematica: “Sono partito come cristiano, mi sono scoperto hindù, sono ritornato buddhista, senza aver mai cessato d’essere cirstiano”. Come dirà più tardi nei suoi libri, il dialogo reale avviene sempre nell’intimo del credente, è un dialogo “intrareligioso”.
A chi pensasse che queste espressioni rivelino una china sincretistica, bisognerebbe ricordare che a Panikkar sono occorsi tre quarti della vita per poterle dire senza fratture interiori e che il filosofo ispano-indiano non ha affatto rinunciato alla “fatica del concetto” e al culto del rigore. Il dialogo, comunque, mette in cammino e Panikkar non si è sottratto a questo viaggio spirituale. Quando Paolo VI nel corso del Concilio Vaticano II lo riceve in udienza e gli chiede su cosa stia riflettendo, Panikkar risponde con una frase che è tutto un programma: “Sto pensando a come essere cristiani in India senza essere culturalmente greci e spiritualmente semiti”. Un compito, quello di “spogliare il cristianesimo del suo manto mediterraneo”, al quale non ha cessato di lavorare nel suo insegnamento all’Università di California e negli innumerevoli corsi, seminari e conferenze tenuti nei luoghi più svariati dei cinque continenti.
Questa fede profonda nell’altro, percepito non come avversario ma come esperienza di rivelazione, lo ha portato ad approfondire il problema delle diversità radicali: come ce la caviamo con sistemi reciprocamente incompatibili, con atteggiamenti che si escludono, con modi di pensare radicalmente differenti? Anziché uniformarli per ricondurli sotto il nostro controllo o lasciarli giocare selvaggiamente in una dialettica distruttiva, Panikkar propone di accoglierli anche se non li si comprende, mantenendosi in un dialogo ininterrotto. È l’atteggiamento pluralista, che manifesta una fiducia radicale nell’altro e può trasformare le tensioni distruttive in polarità creatrici. Il filosofo ispano-indiano non s’accontenta di indicare un sentiero pratico, ma tenta di giustificarlo teoreticamente facendo appello alla conoscenza simbolica, che ci apre alla realtà attraverso la partecipazione al simbolo. Paradossalmente il simbolo ha un’ampiezza maggiore della conoscenza razionale, perché si può partecipare allo stesso simbolo senza produrre le stesse interpretazioni. Recuperare il valore della conoscenza simbolica è fondamentale nell’incontro con persone di altre religioni e culture. C’è una conoscenza per connaturalità che porta ad assumere la natura di quel che desideriamo conoscere e l’umanità ha sempre saputo che gli occhi dell’amore spesso sono più forti di quelli della ragione.
Continuando nella sua analisi della conoscenza, Panikkar si rende conto che la vita di ogni essere umano è fondata su un orizzonte non pensato, che il nostro autore chiama mito. Il mito è tale quando non si prova nessuna necessità di indagarlo. Il suo ruolo è molto importante perché ci libera dalla necessità di pensare tutto e di razionalizzare tutto. Naturalmente ogni orizzonte è limitato ed è necessario lo sguardo di un’altra cultura per leggere il nostro mito. Nell’uomo c’è anche il livello del pensiero e della conoscenza intellettuale, che però non ha per Panikkar tutti i diritti, come pretenderebbero il razionalismo e lo scientismo moderni. Il ruolo della conoscenza è semplicemente quello di indicarci dove comincia l’irrazionale, ma non quello di guidare l’essere umano. Questo spetta a un’altra dimensione, è compito dello spirito. È il pensiero stesso a renderci consapevoli che quando andiamo in fondo a noi stessi tocchiamo qualcosa d’altro, che non possiamo definire, che è il fondo comune a noi e a tutta la realtà. È proprio questo “soffio” che non sappiamo né da dove venga né dove vada a orientare l’esistenza. Panikkar rimprovera alla cultura occidentale di aver operato una triplice riduzione: della dimensione intellettuale a semplice ragione, dell’uomo esclusivamente alla dimensione intellettiva, dell’essere unicamente all’uomo. In un’ottica simile non c’è posto per il mito, per il corpo, per lo spirito, ma nemmeno per il divino e per il cosmo. Al fondo dell’impostazione occidentale c’è la convinzione che l’essere obbedisca al pensare e che il vero problema umano consista nel diventare consapevoli, nel riflettere. Per l’Oriente l’essere ha dimensioni che non si possono ridurre al pensare e l’atteggiamento umano più consono consiste nel lasciare che l’essere parli e nell’ascoltarlo. Non c’è bisogno di pensare tutto, ma di abbandonarsi a una fiducia radicale che accolga l’essere (e dunque l’altro) così come si manifesta.
Le critiche di Panikkar alle modalità culturali dell’Occidente nascono da un’intuizione che sta al centro del suo pensiero e che egli chiama “cosmoteandrica”. La parola viene dal greco e indica la interrelazione di tre dimensioni, la realtà materiale (cosmos), il divino (theos) e l’umano (anthropos). C’è nella realtà e nell’uomo un fondo-senza-fondo che per un verso ci supera infinitamente, per un altro è il nostro vero noi stessi. Il nostro vero io non è il nostro ego, ma questo fondo che può essere chiamato con le parole della presenza o con quelle dell’assenza a seconda dei differenti registri culturali. È la dimensione del divino, che Agostino aveva caratterizzato come più intima del più intimo di noi stessi e le Upanishad come “più piccola del cuore del seme di miglio e più grande della terra e dei monti”.
Ma in ogni essere, sostiene Panikkar, c’è una dimensione di pensabilità che lo rende comprensibile, penetrabile dall’intelligenza, lo collega alla coscienza umana. Così il mondo esterno vive umanizzato all’interno dell’uomo. Questa è la dimensione di coscienza che l’induismo chiama cit. Infine il reale ha una dimensione cosmica di materia-energia e di spazio-tempo che non può essere trascurata. L’uomo non è né il puro prodotto della natura perché possiede intelligenza e libertà, né il padrone della natura perché ne condivide il destino. Il mondo è il suo corpo più grande. Le tre dimensioni sono profondamente interconnesse: non c’è Dio senza uomo e senza mondo, come non c’è uomo senza Dio e senza cosmicità.
Privato della dimensione divina l’uomo sprofonderebbe nell’asfissia e nella disperazione, senza dimensione umana ci sarebbero unicamente solitudine e funzionalismo, e senza dimensione cosmica prevarrebbero la violenza e il meccanicismo. Facendo perno sulla intuizione cosmoteandrica Panikkar rilegge il cammino filosofico dell’Occidente, che non è sfuggito alla tentazione di oggettivare Dio e avrebbe bisogno di ritornare a quel grande silenzio dei concetti di cui il buddhismo è l’espressione più alta.
Non posso terminare questa carrellata su alcuni temi centrali del pensiero panikkariano senza citare la sua riflessione sulla figura di Cristo. “L’ho conosciuto nella mia giovinezza e da allora non l’ho mai abbandonato”, ci ha confidato una volta. Anzi il suo primo impegno teologico è stato quello di estendere la presenza del Risorto a tutte le tradizioni religiose dell’umanità. “Gesù è il Cristo, ma il Cristo non s’identifica con Gesù”. Questa formulazione, che sta a significare che la presenza salvatrice di Cristo opera dappertutto anche se non conosciuta con questo nome, ha provocato fiumi d’inchiostro e critiche severe.
Penso che la più bella risposta di Panikkar sia affidata al suo libro La pienezza dell’uomo: una cristofania, dove egli tenta di superare il metodo storico-critico e quello personalistico e invita ogni credente a diventare Cristo e a immedesimarsi totalmente con Lui per avere accesso a una reale conoscenza del Cristo.
Come accade a tutti i pensatori di frontiera che percorrono sentieri non battuti, l’opera di Panikkar presta il fianco a critiche, precisazioni, prolungamenti, ma un fatto è certo: questo pensiero per le esperienze da cui parte, che saranno condivise nel futuro da larghi strati dell’umanità, avrà di sicuro un grande avvenire. L’aspetto più significativo di questo monumentale lavoro è che costituisce l’espressione di una fede nitida e profonda. Ogni lettore attento può constatare che la speranza di Panikkar, per riprendere una sua espressione, non è ancorata nel futuro, ma nell’invisibile.
(Omaggio a Raimon Panikkar – 07/10/08 – di Achille Rossi – da l’Altrapagina – Articolo pubblicato il 07/10/08 su MegaChip)
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