Un uomo vestito da Sufi stava un giorno camminando per la strada quando, trovatesi di fronte a un cane, lo colpì duramente col suo bastone. Guaendo di dolore, il cane corse dal grande saggio Abu-Said.
Si gettò ai suoi piedi e, mostrandogli la zampa ferita, chiese giustizia per il crudele trattamento che il Sufi gli aveva riservato. Il saggio li fece comparire insieme. “Che sventato!”, disse al Sufi. “Come hai potuto trattare così una povera bestia? Guarda che hai fatto!”.
“Non è colpa mia”, si difese il Sufi, “è tutta colpa del cane. Non l’ho colpito per capriccio, ma perché aveva sporcato il mio vestito”.
Il cane, tuttavia, persistette nella sua denuncia. Allora l’incomparabile saggio si rivolse al cane: “Anziché aspettare il compenso finale, permettimi di compensare la tua pena”.
Il cane rispose: “Oh, grande saggio! Vedendo un uomo che indossava la veste sufi, ho concluso ovviamente che non potesse farmi alcun male. Se avesse indossato abiti ordinari, l’avrei sicuramente evitato. Il mio vero errore è stato di supporre di potermi fidare dell’aspetto esteriore di un uomo di verità. Se volete che egli venga punito, toglietegli il vestito degli eletti, privatelo del manto dei giusti …”.
Il cane stesso occupava un certo rango sulla Via. È sbagliato credere che un uomo debba essere, necessariamente migliore di un cane.
Questo racconto è più conosciuto nella versione di Rumi, “L’elefante nella casa buia”, che si trova nel Mathnawi. Il maestro di Rumi, Hakim Sanai, riporta questa versione più antica nel primo libro del suo classico sufi, “il Giardino cintato della verità”. Sanai mori nel lì 50. Le due storie sviluppano lo stesso argomento, che i maestri sufi usano tradizionalmente da secoli.