[ … Precede … ] Poiché ho parlato di kang, devo spiegare di cosa si tratta. I cinesi del Gansu e i tibetani delle regioni limitrofe, che vivono come i cinesi, non usano il letto. Nelle loro case costruiscono delle pedane in muratura. Le dimensioni sono variabili: certe misurano appena 1,50 m di larghezza e 2,50 di lunghezza, altre formano un rettangolo di tre metri per quattro o anche più grande. Sotto la piattaforma c’è un fuoco che in inverno viene alimentato; la parte superiore diventa quindi una stufa che diffonde calore nella stanza. Ma questo è un vantaggio comunque secondario. La pedana serve soprattutto come letto di notte e di giorno per sedersi al caldo, le gambe incrociate, e mangiare, leggere, scrivere o conversare con i visitatori.
Per conto mio, non c’e sensazione più sgradevole di quella di trovarmi stesa su una superficie che talvolta brucia così tanto da bucare le coperte che si mettono sopra per formare uno strato e proteggersi dalle bruciature. Con una temperatura esterna che sfiora i venticinque gradi sottozero, il vento che si insinua tra le ante delle porte sconnesse e nelle finestre senza vetro dalla carta sempre un po’ bucherellata, ci si sente gelare dalla parte che non tocca il kang e arrostire dall’altra. Così si passano le notti a rigirarsi per farsi rosolare a destra e a sinistra come, si dice, accadde a San Lorenzo sulla graticola dei torturatori romani. Capita, peraltro, che i bambini lasciati a dormire sulle piattaforme troppo calde vengano “cotti” vivi. Un certo numero di neonati muore tutti gli anni per questa ragione, con gran disperazione dei genitori, ma senza che il caso serva da esempio alle altre madri. Queste, d’altronde, non hanno nessun altro mezzo a disposizione per preservare i loro piccoli dal freddo.
Un kang ben fatto ha due aperture. Una serve a introdurre il combustibile: di solito una miscela secca di paglia e sterco; dall’altra apertura esce il fumo.
Il forno è ermeticamente chiuso all’interno della stanza di modo che né fumo né gas possano entrare.
Ma è raro trovare kang ben funzionanti. La maggior parte ha delle fessure all’interno della stanza. Altri hanno una sola apertura e così manca il tiraggio. Altri ancora peggiori ricevono il combustibile dallo stesso buco che si apre nella stanza e che resta sempre aperto con insopportabili esalazioni.
Ne ho visti anche alcuni in cui semplici tavole formavano un coperchio sul fuoco che covava sotto la cenere. In certi posti, vicini alle miniere, gli indigeni bruciano anche del carbon fossile in questi kang dissestati.
Su uno di questi c’e mancato poco che mio figlio e io morissimo asfissiati in una fattoria dove ero andata a trovare una donna malata. Era nell’Amdo, parecchi mesi prima che intraprendessi questo viaggio e in un’altra regione del paese. I genitori della malata mi avevano supplicata di restare un altro giorno per vedere l’effetto delle medicine che le avevo somministrato e d’altronde, essendo le strade poco sicure, avevo accettato di passare la notte alla fattoria.
Mi avevano dato la stanza migliore dell’abitazione. Secondo l’uso del paese, la dovevo condividere con mio figlio. Ci servirono un ottimo pasto su tavoli bassi, posti sul kang, poi ci lasciarono e non ci mettemmo molto ad addormentarci vestiti, sempre secondo l’uso del paese, stesi sui cuscini posti sul kang bollente. Nel cuore della notte mi svegliai con la testa pesante, incapace di muovermi. Ebbi comunque quel tanto di lucidità per comprendere quello che stava accadendo. Con grande sforzo chiamai Yongden. Anche lui era semicosciente. E feci fatica a farmi capire.
– Presto, presto, – dissi – alzati, portami via, stiamo per morire.
Dopo qualche istante il ragazzo riuscì a muoversi e si trascinò verso di me. Il kang era largo: il giaciglio di Yongden si trovava dalla parte del muro e il mio dalla parte opposta, vicino alla finestra. Gli scuri erano chiusi, l’oscurità quasi completa. Strisciando a caso attraverso lo spazio che ci separava, Yongden rovesciò i tavolini con i resti della cena, poi, dopo aver sentito la mia testa sotto la mano, la prese e tirò. Nel torpore in cui si trovava, non aveva la nozione esatta dei suoi gesti: sapeva solo che doveva farmi uscire dalla stanza. Trascinata dal ragazzo, raggiunsi il bordo della pedana e caddi pesantemente per terra. Yongden, che si era lasciato scivolare dal kang e si teneva a malapena in piedi, non lasciò la presa e mi strinse più forte. Sentivo le sue dita entrarmi negli occhi, in gola. Continuò a trascinarmi…
Riuscì ad aprire la porta che dava sul cortile, ma le forze lo abbandonarono e mi crollò addosso subito dopo aver oltrepassato la soglia.
Era il 25 dicembre, la notte era bellissima, illuminata dalla luna. Faceva freddo. Secondo le temperature dei giorni passati, il termometro doveva segnare 30 gradi sottozero. Dopo aver rischiato di morire asfissiati, correvamo il pericolo dell’assideramento. [ … ] [ … Segue … ]
– Diario di viaggio – Alexandra David-Néel (I Parte)
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