Quel mattino un sole radioso illuminava il cielo azzurro facendo rifulgere la terra gialla, seccata dal gelo invernale. Era il principio di febbraio, la neve era ancora accatastata nei viottoli del grande monastero di Kumbum e imbiancava le cime vicine, ma i sentieri erano cosparsi da un chiarore primaverile. Le strade, con i sassi e i fili d’erba, intonavano allegri canti che invitavano alla partenza.
I muli carichi di bagagli, addobbati con pon-pon rossi, facevano risuonare con impazienza i campanelli che portavano al collo… Ero in procinto di partire. L’avventura che mi apprestavo a vivere avrebbe superato per difficoltà tutte quelle che l’avevano preceduta e già ne pregustavo l’ebbrezza. Un rimpianto, però, gettava sulla mia partenza un’ombra di malinconia.
Avrei passato volentieri il resto dei miei giorni a cullarmi nella calma della città monastica dove avevo appena trascorso due anni e otto mesi. Era così tranquilla la mia casetta decorata con affreschi ingenui, riparata in fondo a un minuscolo chiostro nel sontuoso palazzo del lama Pegyai Tulku! Mi ero abituata ad ammirare dal mio balcone i tetti dorati dei templi e, in lontananza, le montagne erbose dove pascolavano yak pelosi e grandi cammelli condotti dalle carovane mongole. La sera mi piaceva ascoltare la grave armonia delle musiche sacre quando i lama facevano, sulle immense terrazze del grande salone, le loro serenate agli dèi. Mi piacevano ancora di più le ore trascorse a seguire il pensiero degli antichi saggi buddhisti sui libri tirati fuori apposta per me da biblioteche sigillate dove riposavano avvolti in cangianti broccati gialli. Si stava lì per studiare, meditare: lo spirito vi assaporava, fino a ubriacarsene, la sottile voluttà dell’isolamento e del silenzio.
Eppure, malgrado tutto, lasciavo Kumbum. Per stabilirmi in quel luogo definitivamente sarei dovuta diventare membro del monastero, ma al mio sesso era vietato e poi mi ero ripromessa di entrare a Lhasa, la città proibita. Come sarei potuta restare?…
La consuetudine tibetana vuole che, al momento della partenza, un ospite di riguardo sia accompagnato per un lungo tratto di strada da coloro che lo hanno ospitato. L’intendente e i trapa del lama Pegyai vi si volevano conformare scortandomi per diversi chilometri, ma insistetti affinché si risparmiassero questa inutile fatica e mi congedai vicino a un ponticello che segnava il confine della città monastica. Lì ci scambiammo gli auguri e le solite sciarpe di omaggio dopo di che la mia carovana si mise in cammino.
Mio figlio adottivo, il lama Yongden, e io la seguimmo a piedi fino alla cima della collina da cui si scorgeva il monastero. Ci restava un rito da compiere. Tra le pietre, nella neve, piantammo e accendemmo alcuni bastoncini di incenso in onore di Tsongkhapa, il fondatore della setta dei Gelupa, nato sul luogo dove sorge ora il monastero di Kumbum, costruito per glorificare la memoria del grande maestro.
Da laggiù, mentre il leggero fumo profumato si innalzava davanti a noi, contemplavamo ancora una volta la radiosa visione dell’immenso monastero con le sue numerose case bianche, i suoi palazzi rossi e le innumerevoli “abitazioni degli dèi” sormontate da tetti d’oro. I miei servitori si prosternarono. Yongden si scoprì il capo e io mi inchinai: commossi e silenziosi, sentimmo affiorare in noi le voci delle nostre speranze e dei nostri timori. Allegra fiducia e angoscianti apprensioni si mescolano e si combattono nel cuore di ognuno di noi. Partire per un lungo viaggio in un luogo lontano, in queste regioni dell’Asia, è sempre un’avventura.
Alla fine mi girai rompendo l’incanto che ci tratteneva: gli altri mi seguirono, scendemmo la pista sull’altro versante della montagna. Qualche passo e Kumbum era fuori dalla portata del nostro sguardo…
Il viaggio che avevo in progetto prevedeva di raggiungere Lhasa seguendo un lungo itinerario costeggiando il nord-est del Tibet. Bisognava raggiungere la strada percorsa dalle carovane che andavano da Daqianlu (all’estremità del Sichuan) alla capitale del Tibet e, per arrivarci, attraversare da nord a sud la regione di frontiera ufficialmente compresa nel territorio cinese, ma abitata da tribù di origine tibetana, indipendenti sia da Pechino che da Lhasa e che riconoscevano solo i capi locali.
Partendo da Kumbum sarebbe stato più semplice e rapido seguire, attraverso i chang thang, una delle piste percorse dalle carovane provenienti dal nord. Il confine di queste vaste distese tocca Dangar, una cittadina di frontiera posta a due giorni di cammino da Kumbum. Così il viaggio avrebbe richiesto solo una decina di settimane, tre mesi al massimo, ma serie ragioni mi impedivano di avventurarmi in quella direzione.
Avevo più volte soggiornato in questa regione – quella del lago blu (il Koko Nor). Ero ben nota ai pastori che vi si accampavano e questi, incontrandomi, mi avrebbero subissato di domande sullo scopo del nuovo viaggio. Un anonimato assoluto era la condizione essenziale per il successo dei miei progetti: dovevo seguire le strade dove non correvo il rischio di incontrare nessuno che conoscessi.
Non ho nulla del temperamento di Don Chisciotte e non faccio niente per attirare le avventure: eppure queste non tardarono. Il giorno stesso della nostra partenza, ci mancò poco che non ci scontrassimo con i guidatori di una carovana mongola.
Tra Lousart e Xining, in uno di quegli inenarrabili sentieri cinesi incassati tra pareti di terra alte quattro-cinque metri e larghe a malapena per consentire il passaggio di un carretto, ci scontrammo con un convoglio di cammelli.
Avevamo stabilito che a turno uno dei domestici avrebbe seguito a piedi i muli con i bagagli. Cinque cavalieri quindi, me compresa, avevano una cavalcatura. Ma per evitare a uno degli uomini (erano tutti trapa) la mortificazione di allontanarsi a piedi dal monastero mentre gli altri avevano una cavalcatura, avevo prestato il mio grande mulo nero a uno di loro e viaggiavo in una carrozza cinese, il classico carro senza molle (il jiaozi) della Cina settentrionale che, per mancanza di strade, non può essere usato oltre Xining e Kumbum, in prossimità delle grandi distese del Tibet.
Era questo veicolo a ostruire la strada, di fronte a un centinaio di cammelli carichi di merci. Arrestati nel loro procedere, spinti da quelli che continuavano ad avanzare meccanicamente, i bestioni si schiacciavano nello stretto corridoio.
In quel momento, mi rilassavo passeggiando sulla cresta di una delle muraglie che delimitavano la strada. Dall’alto del mio osservatorio la situazione era chiara. Totale impossibilità di passare contemporaneamente: il carro e i cammelli dovevano tornare indietro e per entrambi significava retrocedere di circa un chilometro.
La consuetudine vuole che, prima di inoltrarsi in una gola del genere, i carrettieri o i conduttori di bestie urlino per avvertire del loro arrivo coloro che potrebbero entrare dalla parte opposta. Non avevamo sentito i mongoli chiamarci e, quanto ai miei uomini, credo che neanche loro si fossero fatti sentire. La colpa era di tutti e due, ma in Oriente questo non conta niente. Bisogna salvaguardare innanzitutto il prestigio. Qualunque cosa pur di non “perdere la faccia”, pensano i cinesi e i tibetani. I miei ovviamente condividevano questa opinione, e per non perdere la loro stima, cosa che poteva avere serie conseguenze nelle peregrinazioni avventurose che mi proponevo, bisognava adattarsi al loro parere. Nella fattispecie, la “faccia” esigeva l’arretramento dei cammelli e il procedere trionfante del mio carro.
– Indietro! – disse Yongden al mongolo che camminava in testa e si trovava al momento schiacciato tra i miei cavalieri e i suoi animali che spingevano.
– Indietro! – echeggiarono i miei servitori.
Altri due conduttori accorsero sulla cresta che dominava la gola.
– Impossibile, – disse uno di loro – abbiamo più di cento bestie e voi solo un carro. Ai vostri muli sarà facile tonare indietro.
Continuavo a guardare dall’alto.
In effetti, l’uomo aveva ragione. Logica, buon senso e coscienza ne convenivano: toccava al nostro carro indietreggiare… Ma c’era la “faccia” e, contro questa, logica, buon senso e coscienza in questo paese contavano ben poco. Se avessi ceduto ne avrei pagato le conseguenze, un giorno di vero pericolo, quando avrei avuto bisogno della fiducia e della fermezza dei miei uomini. Quale era il rapporto con l’arretramento di un carro in un sentiero incassato? Nessuno, è ovvio, ma non potevo cambiare la mentalità dei miei compagni di viaggio.
– Indietro! – rispose Yongden alle contestazioni del mongolo.
– Indietro! – echeggiarono gli altri.
La discussione si surriscaldò, si giunse agli insulti, alle minacce. I cammelli aggiungevano i loro versi stonati allo scompiglio; i muli spaventati cercavano di impennarsi e, non riuscendoci per mancanza di spazio, cominciarono a mordersi tra loro… Quel trambusto in fondo al burrone aveva un che di pittoresco.
Un mongolo si mise in spalla un fucile. Le cose precipitarono. Ora, dopo quel tentativo di minaccia, anche volendo, non avrei più potuto cedere.
– Anche noi abbiamo i fucili – risposero i miei, abituati alla vita dei chang thang dove le scaramucce sono frequenti, e imbracciarono le armi che portavano a tracolla.
Si sarebbero ammazzati?…
Probabilmente i mongoli pensarono che per mostrarsi tanto ostinati, uomini così ben vestiti e con così belle cavalcature dovevano occupare un rango di prestigio nella scala sociale, e che ferire o uccidere uno di noi avrebbe avuto serie conseguenze per l’omicida. Si decisero a tornare indietro.
I grossi e lenti cammelli attaccati gli uni agli altri dal naso e dalla coda, in fila da dieci o otto, si prestavano male a questo esercizio. Mentre i conduttori si occupavano di loro, scesi dal mio osservatorio, risalii sul carro causa di tanto scompiglio e, liberato il corridoio, lo traversai con aria dignitosa. La “faccia” era salva.
Ma non avevo il cuore abbastanza “mandarino” per godermi la vittoria senza rimorsi. Cogliendo al passaggio gli sguardi dei cammellieri, feci loro segno, mostrai due dollari cinesi e, passando la mano sotto le tende che avvolgevano il mio veicolo, lasciai cadere le due grandi monete. I mongoli compresero il mio gesto, raccolsero il denaro e lodarono la mia carità. I miei non mi avevano vista… la “faccia” continuava a essere salva! [ … ] [ … Segue … ]
– Diario di viaggio – Alexandra David-Néel (II Parte)
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