Un giorno a una domanda sulla morte mi si è presentata spontaneamente questa risposta: “Tu non hai paura della morte, hai paura della vita”. Ho riflettuto e mi è apparso con certezza quanto quella risposta fosse vera: la paura della morte è tanto più grande quanto più non si è osato vivere. Se davvero non avrete più paura della vita non potrete più avere paura della morte perché avrete scoperto in voi stessi cos’è veramente la Vita, non la vostra vita ma la Vita unica e universale che ci anima, e quindi vi apparirà evidente che quella vita è indipendente dalla nascita e dalla morte.
Sapete che gli occidentali comunemente contrappongono la vita alla morte, mentre per gli orientali l’opposto della morte è la nascita, dal momento che la vita si esprime in un movimento perpetuo di cambiamenti, in un gioco ininterrotto di nascite e di morti. Questa convinzione è comune a molte forme di spiritualità e il mio guru, Swami Prajnanpad, faceva degli esempi semplici: la nascita di un bambino è la morte del neonato, la nascita dell’adolescente è la morte del bambino.
Osare vivere è osare morire a ogni istante, ma è ugualmente osare nascere, vale a dire superare le grandi tappe dell’esistenza in cui ciò che siamo stati muore per fare spazio ad altro, con una visione rinnovata del mondo, pur ammettendo che ci siano diversi stadi da superare prima dell’ultima tappa del Risveglio. Questo significa essere sempre più consapevoli che a ogni istante si nasce, si muore e si rinasce. Ma osare vivere significa anche semplicemente non avere più la paura di ciò che portiamo in noi stessi. E sono sicuro che molti di voi sono d’accordo con me, soprattutto quelli che hanno incominciato a scoprire il loro inconscio. Avete paura di quello che portate in voi perché sapete che non potete contare completamente su voi stessi, che potreste mettervi in situazioni per le quali poi vi mordereste le mani. Ma avete paura di quello che portate in voi stessi anche perché da bambini vi è capitato di essere brutalmente contrastati nelle vostre espressioni, e ciò che era una forma della vostra gioia di vivere e del vostro entusiasmo ha attirato su di voi una catastrofe: vi hanno coperto di rimproveri mentre ciò che stavate facendo vi rendeva felici.
E noi non capivamo, forse l’abbiamo rivissuto in terapia, come e perché i nostri genitori fossero così arrabbiati mentre a noi sembrava così divertente tagliare con un gran paio di forbici le più belle tende della casa o, come ho fatto io, mettere nella vasca piena tutte le scarpe di mia sorella, mio fratello, mio padre e mia madre per farle galleggiare come barchette. I miei genitori non avevano molti soldi all’epoca, né molte scarpe nell’armadio, ma per me erano sufficienti per provare a farle galleggiare. E’ un ricordo insignificante e innocuo, tuttavia ho rivissuto con intensità tragica la disperazione di mia madre, la severità di mio padre e la mia felicità infranta. Perché ciò che a me sembrava così meravigliosamente divertente aveva provocato un tale turbamento in mia madre quando aveva visto che le scarpe si erano rovinate?
Spesso quelli che agli occhi dei nostri genitori sono piccoli incidenti agli occhi dei bambini che siamo stati sono eventi terribili. La paura di ciò di cui siamo capaci si insinua dentro di noi molto rapidamente e di qui, se i genitori non sono particolarmente capaci, cominciamo noi stessi a soffocare la nostra forza vitale, il nostro ‘slancio vitale’. Cominciamo a reprimere la nostra pulsione vitale. E poi lo sapete bene (la psicologia ce lo insegna e forse l’avete potuto verificare personalmente) che la scoperta della sessualità si fa spesso nel malessere, nell’incomprensione, nel senso di colpa per la masturbazione infantile, e che gli impulsi che si svegliano nell’adolescenza, se non trovano lo spazio per espandersi completamente come vorremmo, ci turbano e ci disorientano. E in questa forza vitale, nella libido, c’è una potenza molto grande che voi non riconoscete completamente. A tal punto che, oggi che la libertà di costumi è molto più grande, oggi che i mezzi per esprimersi sono immensi e i viaggi facilitati, la maggior parte di voi non osa più vivere pienamente. Ed è quando non lasciate più spazio allo slancio vitale dentro di voi che cominciate ad aver paura della morte. Ciò che è veramente importante è che vi liberiate della paura di vivere.
Questa paura di vivere comporta due aspetti: da una parte la paura di tutto ciò che portiamo in noi stessi, dall’altra la paura delle situazioni concrete con le conseguenze a cui possono dare origine. La paura di vivere diviene ben presto paura di soffrire: maglio vivere meno per soffrire meno. Osservate, guardate, domandatevi se questo vi riguarda o no. Questa verità mi si è imposta nei nostri colloqui privati e nelle nostre riunioni comuni. Avete paura di vivere perché vivere significa assumersi il rischio di soffrire. Questa paura ha le sue radici nelle vostre esperienze passate perché più avete vissuto più siete stati infelici. Non soltanto perché avete vissuto l’entusiasmo di mettere delle scarpe in una vasca, ma perché quando vi siete innamorati all’età di 18 anni avete sofferto tanto. E molto spesso nasce questa decisione, a volte inconscia, a volte molto cosciente: “Non voglio più soffrire così”. E’ una bella decisione, ma ne consegue un’altra decisione che, quella sì è completamente falsa: “di conseguenza non amerò più”, o “di conseguenza non mi metterò più in situazioni pericolose”. Bisogna aver chiaro che, per chi è impegnato nel cammino della saggezza e vuole poco a poco penetrare il mistero della sofferenza, è indispensabile assumersi il rischio di vivere e di soffrire.
D’altra parte, se da bambini la nostra vitalità e forse anche la nostra esuberanza sono state spesso associate a rimproveri “non devi”, “come hai osato!”, e dunque accompagnate da un giudizio di valore, questa ricchezza di vita è stata abbondantemente condannata anche dagli insegnamenti spirituali che esaltano l’ascetismo, l’austerità, la rinuncia, il ritiro in un monastero o in una grotta d’eremita, e, per finire, ‘la morte a se stesso’ o ‘la morte dell’io’. Io stesso sono rimasto sorpreso quando un uomo austero come Swami Prajnanpad insisteva sul valore dell’audacia di vivere, di esporsi e di non sottrarsi ai colpi della vita. Questo atteggiamento mi sembrava in contraddizione con la spiritualità induista come io la intendevo. E lì c’è un rischio reale che io ho sfiorato più volte: quello di camuffare sotto discorsi nobili ma menzogneri quella paura di vivere che, beninteso, esisteva in me (io non condivido mai una verità che non ho vissuto e che non mi abbia reso un po’ più libero, altrimenti non mi riterrei competente o qualificato per parlarne). Quindi, vi dibattete in un senso di soffocamento per il desiderio di condurre una vita vasta, una grande vita, una vita ricca di esperienze. Il rischio è che questa paura di vivere sia illusoriamente giustificata da un ideale spirituale.
Secondo la terminologia induista, chi è rajasico, attivo, vive intensamente, mentre si deve diventare satvici, calmi, sereni, raccolti in se stessi. Così tanto e così bene che mi si era imposta l’immagine del saggio in meditazione, gli occhi chiusi e il sorriso del Buddha, a scapito dell’immagine dell’uomo che osa partecipare completamente all’esistenza e accettare tutte le forze e tutte le pulsioni che sono in lui prima di divenirne poco a poco padrone. Sì, rischiamo realmente di ingannare noi stessi. Non accuso e non condanno nessuno dal momento che anch’io sono parte in causa. Io stesso ho corso abbondantemente quel rischio, non soltanto voi, ragazzi e ragazze, uomini e donne che pure lo correte. E ci tengo a dire che parlo unicamente in nome della saggezza e in vista della più alta forma della spiritualità. Cerchiamo di essere innanzi tutto perfettamente naturali prima di aspirare al soprannaturale. “Colui che tradisce la terra non raggiungerà mai il cielo”, questo famoso motto è eloquente.
E’ un tragico errore continuare, nella convinzione che il cammino della spiritualità lo esiga, a soffocare una vita che è già considerevolmente mutilata: se mi ritiro a poco a poco dal mondo realizzerò l’archetipo del saggio che ha rinunciato a tutto, immerso nella beatitudine del nirvana. Si tratta di un’immensa menzogna, frutto della negazione e della paura.
Chi conosce soltanto un poco l’opera del celebre, forse troppo celebre Rajneesh, sa quanto egli abbia insistito sul tema “osate vivere”, utilizzando parole come ‘celebrare’ o ‘celebrazione’: celebrate, fate della vita una celebrazione. Ma sebbene trovo ammirabili certe pagine di Rajneesh di questo o quel libro, non mi avvalgo del nome di un uomo che non ho mai avvicinato e di un ashram dove non ho mai messo piede. Mi attengo ai maestri che hanno segnato la mia strada.
Tutto ciò che avete sentito dalla voce dei grandi saggi o letto in testi della tradizione spirituale è certamente vero, e ‘la morte a se stessi’ è certamente un aspetto fondamentale del cammino spirituale. Non possiamo rimanere nel bozzolo e diventare farfalle alle stesso tempo. I bozzoli non mettono e non metteranno mai le ali: ma cominciamo dall’inizio. Se desiderate raggiungere una spiritualità che non sia una caricatura, abbiate il coraggio di riconoscere tutta la forza vitale che esiste nel bambino e che in voi è rivolta contro se stessa. Certo, l’effervescenza del bambino diminuisce con l’età. Non ci si aspetta che una persona anziana sia vivace come un bambino di due anni che ha voglia di correre dappertutto e di mettersi a scalare ogni cosa. Ma sono convinto che una gran parte di ciò che attribuiamo all’avanzare dell’età derivi di fatto dalla repressione della forza vitale in noi, innanzi tutto da parte di chi ci educa, poi da parte dell’esistenza in generale, e infine da parte di noi stessi, e sono convinto che non si può divenire né un asceta né una yogi se si soffoca questa forza vitale.
Se avete letto anche soltanto qualche libro sull’induismo, sapete che l’esoterismo dello yoga si fonda sulla liberazione di una forza molto potente, kundalini, il cui risveglio prematuro in un corpo non sufficientemente purificato può anche essere pericoloso. Io non mi avvalgo dell’hatha yoga né dello yoga kundalini ma mi ricordo del mio smarrimento quando, imbevuto com’ero dell’insegnamento di Ramdas, di Ma Anandamayi, di Ramana Maharshi, Swamiji mi volle mostrare nel 1966 la falsità del mio ideale di meditazione e di spiritualità pura, mentre molti aspetti di me rimanevano incompleti e frustrati, una parola alla moda che conosciamo tutti.
Quell’uomo era, forse più di altri, l’incarnazione della rinuncia. A dispetto di tutti i falsi ideali che abbiamo del ‘saggio’ era per esempio all’estremo opposto di un Gurdjieff, che non ho mai incontrato ma la cui verità o leggenda ha ispirato i primi dieci anni della mia ricerca. Gurdjieff, che aveva vissuto con grande intensità le sue avventure in cerca della verità, alla fine del diciannovesimo secolo, quando ogni viaggio rappresentava una vera spedizione, aveva l’abitudine di spingere i suoi discepoli mettendoli in situazioni molto difficili e suggerendogli di osare a viverle pienamente. E’ stato tacciato di immoralità, è stato accusato di essere lui stesso un debosciato, è stato trattato come un Rasputin, ma io sono sempre stato convinto che un uomo capace di comporre una musica così pura e cristallina non si poteva ridurre all’immagine che ne davano i suoi detrattori; al contrario, in una forma sconcertante e forse anche sconveniente, era un maestro e un saggio.
Sebbene non avessi incontrato Gurdjieff di persona, ciò che avevo sentito dire di lui, del suo insegnamento e di quella forza vitale che si sprigionava da lui è stato immensamente benefico per il piccolo protestante che ero, da una parte così preoccupato di non essere criticato, di crearsi attorno un’approvazione unanime mostrandosi saggio e gentile, e dall’altra imbevuto di morale, di scoutismo, di paure e di inibizioni. Certo, l’affermazione che la saggezza non deve essere il frutto della frustrazione, né della paura di ciò che portiamo dentro di noi può essere pericolosa e condurre a comportamenti immorali e a un disordine che non ha più niente a che fare con il cammino verso la libertà. Tutt’altro.
Con l’insegnamento di Gurdjieff, ho quindi cominciato a comprendere che non c’era una reale incompatibilità tra la saggezza, parola che mi affascinava dopo aver letto, a ventidue anni, La saggezza e il destino di Maeterlinck, e le forme più concrete di esistenza. In seguito sono entrato in contatto con un mondo completamente diverso, di cui ho dato testimonianza nel libro Ashrams, quello di Ma Anandamayi, di Ramdas, di Swami in meditazione sulla riva del Gange sotto un baniano, un mondo che mi sembrava fatto solo di bellezza, di armonia e distacco, un mondo nel quale le pulsioni erano trasformate subito in luce e contemplazione. In seguito ho scoperto che, salvo Ma Anandamayi stessa o Ramdas o altri saggi ammirabili, molti di coloro che soggiornavano negli ashram, indiani o europei, e che erano diventati dei grandi meditanti, non avevano di fatto raggiunto alcuna reale libertà. Certamente erano molti belli nella loro postura immobile e silenziosa e di sicuro accadeva loro qualcosa di grande mentre meditavano. Ma, al di fuori delle ore di meditazione quotidiana, e la meditazione mi sconcertava molto all’epoca, li vedevo emotivi, facilmente irritabili, gelosi e assolutamente lontani dalla verità. Ad esempio, un giorno che ero molto stanco, nonostante non gli avessi domandato nulla, mi intrattennero a lungo e mi sciorinarono discorsi, che io non osai interrompere per correttezza, sulla maya, l’irrealtà del mondo secondo l’insegnamento di Shankaracharya. All’epoca, non mi occupavo ancora di psicologia, quindi non immaginavo che quella logorrea potesse essere la manifestazione di istinti o di tendenze rimosse e non avrei neppure parlato di nevrosi. Ma provai un senso di malessere ascoltandoli.
In seguito ho incontrato Swami Prajnanpad nel suo ashram povero e austero, quest’uomo che aveva rinunciato a una carriera politica, nella quale molti indiani volevano vederlo impegnato (Swamiji era amico intimo di Lal Bahadur Shastri, che fu primo ministro dell’India dopo Nerhu), sia una carriera universitaria, e infine una vita coniugale con una donna che tutti da giovani trovavano incantevole. Swamij mi ha scosso sin dalle fondamenta (non si scuote un uomo le cui fondamenta sono solide) convincendomi che ero io stesso narrow, gretto, shallow, superficiale, e cripple, storpio, nonostante avessi quarant’anni e la mia vita sembrasse piuttosto ricca, dal momento che viaggiavo, solcando le strade dell’Asia e che avevo osato mettere sottosopra i divieti sessuali della mia giovinezza. Queste parole di Swamiji erano dure da ascoltare. Ero colpito non soltanto dalla profondità a cui potevo dare un senso metafisico, l’Essenza sotto l’apparenza, il Reale sotto l’irreale, l’Uno sotto il molteplice, l’Immutabile sotto il divenire (questo lo potevo intendere bene dal momento che mi nutrivo di questo genere di letture), ma anche dalla mia personale profondità vitale, dalle mie pulsioni, dai miei istinti. Quell’uomo che rappresentava per me il Vedanta vivente e che non si poteva sospettare che perorasse la sua causa personale, giacché viveva nella rinuncia e molte ore ogni giorno nell’immobilità, bello come una statua, quest’uomo si batteva con me per distruggere quell’immagine del saggio che mi ero fatta a partire da Ramdas e da Ma Anandamayi, nei confronti dei quali, beninteso, conservo più che mai la mia venerazione. Così mi costrinse a riconoscere che c’era una forma di disonestà nella mia personale vita spirituale e che nella meditazione sfuggivo non soltanto molti aspetti dell’esistenza concreta, ma soprattutto molti aspetti di me stesso.
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Senza dubbio conoscete il ruolo che giocava il lying in Swamiji, pratica ascetica che consisteva nel riportare alla superficie i ricordi dell’infanzia con il loro carico traumatico e da lì sul far luce sul modo in cui abbiamo cominciato a spaventarci, in cui si è impressa in noi l’idea che osare di fare affidamento sul nostro slancio può essere pericoloso o anche colpevole. Rendere cosciente l’inconscio non si riduce ad attenuare certe sofferenze perché se ne scopre la causa, è anche comprendere come si è impressa in noi la seguente terribile legge: “Vivere è male”. Tutte le forme di educazione, anche se non sono particolarmente religiose, sembrano dire al bambino: “questo va molto bene” e “questo è male, come hai potuto farlo!”. Molto presto, dividiamo il mondo in due e ci formiamo un’idea di ciò che è bene, vale a dire ciò che piace ai nostri genitori o ai nostri educatori, e di ciò che è male, vale a dire, molto semplicemente, ciò che a loro dispiace. E da qui comincia la tragedia che Swamiji riassumeva in queste tre parole: storpio, gretto, superficiale.
Per voi si trattava di qualcosa di buono. Per vostro padre e vostra madre, che per altro voi amavate e ammiravate, era male. Dato che necessariamente sono papà e mamma che hanno ragione e quindi sono io che ho sbagliato, non posso più credere in me. Bisogna che diffidi del mio slancio vitale o delle forme che può prendere. In seguito tessiamo la nostra prigione come un ragno la sua tela o un bruco il suo bozzolo, siamo noi stessi che la costruiamo sotto l’impulso dei nostri educatori soffocando le nostre pulsioni sempre di più. E qui interveniva la formula: “No denial, Arnaud”, “Non negare niente, non rifiutare niente”. Dio sa quanto volessi rinnegare in me tutto quello che mi intralciava e che sembrava andare nella direzione opposta a quella saggezza che mi affascinava e di cui aveva l’immagine ammirabile negli occhi dopo tutti i saggi induisti e i monaci tibetani che avevo inquadrato con passione nel mirino della mia macchina fotografica. Ricordo la battaglia tra me e Swamiji, perché Swamiji voleva allontanarmi da quella spiritualità per ricondurmi in un mondo che io volevo superare.
Ma rischiavo di non superarlo, dato che non l’avevo mai guardato in faccia. Non si trattava soltanto del mondo delle attrazioni esteriori, le donne per gli uomini, gli uomini per le donne, il successo, i soldi, il potere, ma anche del mondo che portiamo dentro di noi. Se, in più, si è stati nutriti da René Guenon, come lo ero stato io, dall’idea che c’è una coscienza superiore luminosa e una coscienza inferiore oscura, infernale, la resistenza sarà tanto più grande e il malinteso quasi inevitabile.
Ma lo dico oggi con tutta la forza della mia convinzione: non possiamo raggiungere il regno dei cieli negando le forze naturali. Queste ci animano sin dall’infanzia e si manifestano sotto forma di pulsione sessuale nella pubertà, insieme con gli aspetti emotivi, l’entusiasmo, l’impegno politico, il sogno del grande amore, le nobili cause che infiammano gli adolescenti. Dobbiamo ritrovare una forza di vita in noi che non sia divisa e in lotta con se stessa. Swamiji utilizzava abbondantemente la parola sanscrita ben nota shakti o ancora atmashakti, energia fondamentale del sé: energia unica infinita che si esprime attraverso tutte le morti, tutte le nascite, dal momento che ogni morte è l’altra faccia di una nascita, ogni nascita l’altra faccia di una morte. Anche il metabolismo in noi non è che un gioco di nascite e di morti a livello fisiologico. Shakti, l’energia o fullness of life, la pienezza della vita. Swamiji impiegava molto anche la parola ‘ricchezza’, non quella dell’avere ma quella dell’essere che è impossibile far crescere nella divisione e nel conflitto. Se una parte delle nostre forze vitali viene utilizzata per reprimerne e negarne un’altra, quanta energia ci resta per esprimerci?
Il senso generale di soffocamento è collegato al soffocamento della forza di vivere stessa, dal momento che la forza vitale si è divisa tra il tentativo di esprimersi e quello di reprimersi. Certamente questa forza di vita può essere rischiarata, purificata, ma deve essere considerata come l’emanazione della più alta realtà. La Manifestazione, l’espressione del Non-Manifestato, anima le nostre cellule, la nostra respirazione, il battito del cuore, e la circolazione del sangue, sottende tutta la nostra psicologia e in particolare l’energia sessuale. Se non è più in conflitto con se stessa, questa energia può essere dominata, trasformata, raffinata e posta al servizio di una comprensione più alta. Può essere posta al servizio della giustizia in ogni situazione, della saggezza, prajna, della volontà di Dio, ma soltanto nella riunificazione, soltanto nell’audacia di vivere.
L’audacia di vivere significa non avere più paura di sé, rifare il cammino inverso, vale a dire sciogliere i nodi e sollevare i divieti che ci hanno condannato a questa paura di noi stessi e a una menzogna di una spiritualità disincarnata, fatta di negazioni. C’è una riunificazione a partire dalla quale possono cominciare il dominio e il controllo. Dopo aver ritrovato il coraggio di riconoscere completamente ciò che è in voi, si tratta di avere il coraggio di gettarsi nell’esistenza, di assumersi i rischi, di accettare di ricevere i colpi dell’esistenza, sapendo già che si verrà esposti al gioco dei contrari: riuscito-fallito, felice-infelice, lode-biasimo. Certo, dovrete far fronte a situazioni che sinora avete considerato dolorose, ma sarete in grado di accettarle dal momento che, se sarete ‘uno con’ una situazione quale che sia, non ne sarete più colpiti e, se viene accettata la sofferenza sfocia nella pace del profondo.
In pratica non esistono grandi destini spirituali che non implichino l’attraversamento di momenti terribili di sofferenza, di smarrimento, di prova. Conoscete forse il proverbio inglese che gli induisti citano così volentieri: “Man’s extremity is God’s opportunity”, “Quando l’uomo è ridotto all’estremo bisogno, Dio ha infine la sua possibilità”. Può darsi che abbiate ricordi di questo genere: nel momento in cui vi sembrava di aver toccato il fondo del tormento e di trovarvi in un vicolo cieco, qualcosa ha ceduto dentro di voi e una pace inimmaginabile, incredibile vi ha improvvisamente inondato nonostante la situazione non fosse cambiata. Riprenderò la formula brutale e magnifica di Karlfried von Dürckheim: “Ciò che non vi uccide vi fa crescere”. E per morire veramente ce ne vuole. Nessuno di voi è morto, nessuno di voi è arrivato a suicidarsi. Ma tutti voi, in un momento o nell’altro, avete avuto l’impressione di soffrire e di soffrire sempre di più e che la vita fosse dura, difficile, dolorosa.
Se comprendete queste nozioni basilari sulle quali tornerò instancabilmente, non avrete più paura di soffrire, perché la sofferenza se accettata, non è dolorosa; le situazioni tormentose acquistano un senso e raggiungiamo dentro di noi il regno dei cieli. E’ a questo che dobbiamo arrivare. E’ a questo che bisogna arrivare. Intendetemi bene: se seguite questo cammino per paura di soffrire, non progredirete mai. Siamo d’accordo che la meta del cammino sia la scomparsa della sofferenza, la pace permanente, la gioia che supera ogni comprensione. Il Buddha ha detto: “Io non insegno che due cose, discepoli, la sofferenza (tutte le leggi che ci permettono di comprendere la sofferenza) e la scomparsa della sofferenza”. Siamo tutti d’accordo che la meta, la beatitudine, ananda, la libertà, implica la scomparsa della sofferenze e uno stato di amore universale e immutabile. Ma il cammino passa per la sofferenza. E non è un discepolo chi cerca di apprendere tutto ciò che gli viene proposto nell’ashram o nel monastero allo scopo di non soffrire più, bensì chi non ha più paura della sofferenza e non teme più di mettersi in situazioni che potrebbero farlo soffrire. Almeno avrà sperimentato, avrà vissuto, saprà che cosa l’esistenza poteva o non poteva dargli, avrà iniziato a comprendere la verità di ciò che noi chiamiamo maya, l’illusione, e moha, l’attaccamento, con il suo gioco di attrazione e repulsione. Un discepolo accetta di soffrire.
Un uomo accetta di soffrire il freddo se vuole esplorare il polo nord, un altro di subire le intemperie in alta montagna e si espone eventualmente al freddo e alla nebbia, un altro accetta di affrontare una tempesta se naviga in alto mare. Chi è impegnato nel cammino preferisce vivere e soffrire piuttosto che non vivere per non soffrire. E non ho dimenticato che in me, dietro i resti di una educazione troppo severa e a un ideale che non volevo rinnegare, si nascondeva la menzogna e la paura di soffrire. Mi rivedo nel 1966, mi difendevo colpo su colpo davanti a Swamiji (“You are a coward, Arnaud”, “Sei un vigliacco, Arnaud”), cercando di convincermi che Swamiji non fosse un guru ma uno psicoanalista, ma tutto sommato attirato da quell’uomo così buono, così nobile e sorridente. In superficie non avevo che dubbi ma in profondità sentivo che occorreva fidarsi.
Il 1966 è stato un anno abbastanza doloroso della mia vita. E’ l’anno in cui Il messaggio dei tibetani (Documentario piuttosto noto realizzato dall’autore, a cui è seguito un libro dallo stesso titolo.) è andato in onda e in cui sono diventato improvvisamente molto noto e in cui è cambiata la mia vita professionale; ma è stato anche l’anno di quella lotta con Swamiji che mi obbligava a vivere in modo più ampio, più vasto e a riconoscere tutto ciò che era in me, a mettere in discussione la mia grettezza e superficialità, ad accettare le forze della profondità in me e a osare vivere ancora di più nel gioco dell’esistenza nella consapevolezza che sarei stato messo a dura prova. Era la sola possibilità di crescere veramente e di raggiungere un giorno una realizzazione all embracing come si dice in India, includendo tutto ciò che ci metta completamente al riparo da ogni ritorno di manovella, da ogni delusione, da ogni nuova esplosione di disperazione o dall’ira. Se vogliamo sentire di essere a un tempo completamente invulnerabili e completamente indifesi. È necessario andare sino in fondo a noi stessi. Se certe vasana (tendenze, pulsioni) sono state rimosse o represse, come possiamo diventare veramente solidi, se dobbiamo lottarvi continuamente? Come possiamo essere in comunione con l’esistenza, che ci rimanda senza sosta a noi stessi, se non siamo in comunicazione con la nostra realtà? Swamiji mi obbligava a vedere in me l’ambizione e non il distacco, le domande affettive e sentimentali, le domande sessuali, tutto quello che concerne il livello ordinario dell’esistenza. Mi obbligava a portarlo alla luce del sole e decidere in seguito il modo in cui lo avrei vissuto, perché egli mi richiamava allo stesso tempo al controllo e alla padronanza.
“Oh, Arnaud, can you miss the fullness of life?”, “Oh, Arnaud, puoi lasciarti sfuggire la pienezza della vita?”. Potete essere soddisfatti di vivere la vita soltanto a metà?
Certo, se la questione viene posta in certi termini, la nostra dignità non soltanto di discepoli ma anche di esseri umani risponde di no. No, non voglio vivere la vita a metà una volta che mi sono incarnato su questa terra. Tutto ciò che amiamo rappresenta una metà della vita e tutto ciò di cui abbiamo paura, perché lo associamo all’idea della sofferenza, rappresenta l’altra metà. Pienezza della vita significa armonizzare, purificare, trascenderne la totalità. Ma allora interviene una difficoltà a me ben nota: per timidezza, per debolezza si rifiuta la metà dolorosa (il “mentale” è un gran bugiardo ma è sempre sincero sul momento) e crediamo che si tratti in realtà di una scelta deliberata. Io credevo di seguire i valori del bene e del male frutto della mia razionalità. Invece quei valori non erano altro che il prodotto dell’esperienza di un bambino, un bambino segnato dalla legge che ho già descritto secondo la quale: “Ciò che mi piace è male, ciò che piace ai miei genitori è bene”. C’era un fondamento di solidità e di verità in questo samskara (una impressione scolpita in noi con il suo particolare dinamismo) massiccio, che si ramifica in tanti samskara particolari?
Comunque, non temete, non ho detto che in tutti esistono le pulsioni più crudeli, più bestiali, più immonde, e soprattutto non ho detto che prendere coscienza di quelle pulsioni farà di voi dei seviziatori, degli stupratori o degli imbroglioni. Quei timori sono ancora le menzogne del ‘mentale’; non si tratta affatto di questo, bensì di non avere più paura della vita in sé.
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Avere paura della forza della vita, dello slancio vitale, anche se quello slancio vitale ci ha messo in difficoltà quando eravamo bambini o adolescenti, rappresenta un sacrilegio. E’ un atto blasfemo, è il rifiuto di Dio stesso. Che lo vogliamo o no, Dio si esprime attraverso questo mondo così com’è. Nella Genesi viene detto qualcosa di inammissibile se non ci riflettiamo più profondamente: “Dio vide che la sua Creazione era buona” Ma guardatela la sua Creazione, in cui gli animali più grandi mangiano quelli più piccoli, in cui la siccità rovina i raccolti, in cui i terremoti distruggono popolazioni intere, in cui gli esseri umani sono incapaci di amarsi, in cui i genitori mutilano i loro bambini credendo di educarli, e tutte le sofferenze che comportano la guerra e le rivoluzioni.
“Dio vide che la sua Creazione era buona”. Infatti, se accettiamo la totalità della creazione, vedremo che essa ha un senso al di là di ciò che ci colpisce, di ciò che ci scandalizza, al di là delle contraddizioni e degli opposti. Per noi la prima applicazione di questa verità, “Dio vide che la sua Creazione era buona”, è che dobbiamo accettarci completamente e nella nostra totalità in quanto creature, vale a dire creazioni o espressioni di Dio o dell’energia di Dio, come dice con insistenza la Chiesa ortodossa. Lo yin e lo yang, il giorno e la notte, il sole e la pioggia, il caldo e il freddo, tutto è in noi, ed è soltanto accettandoci nella nostra totalità che possiamo raggiungere ciò di cui la shakti è espressione, vale a dire l’illuminazione, l’amore, l’invulnerabilità, la pace, l’infinito. Quante parole per una realtà che desiderate e che vi è promessa!
Non potete raggiungere il Non-Manifestato se non passando per il manifestato. Non potete raggiungere l’atman se non passando per la shakti, l’energia, e la pienezza di questa energia. Se guardate bene, vedete innanzi tutto come questa energia sia composta di contraddizioni: costruzione e distruzione, nascita e morte, ciò che si definisce dualità. E questa energia prende la forma tanto di ciò che vi hanno insegnato a riconoscere come bene in voi, quanto di ciò che vi hanno insegnato a riconoscere come male: certi desideri, certi pensieri, certi fantasmi, certe pulsioni. Così si esprime in pensieri che vi ossessionano e vi torturano e in stati dello spirito completamente felici e ottimisti. Si manifesta come dilatazione del cuore e come angoscia, vale a dire in forme opposte. E, arrivo ora al punto essenziale che ci permetterà di passare dal livello ordinario a quello superiore, ciò che può essere scoperto è questa energia alla sua sorgente, in quanto forza di vita al di là, o piuttosto al di qua, del gioco dei contrari. Potete sentire in voi, prendere coscienza in voi della potenza di questa energia, unicamente come energia positiva. Un positivo assoluto di fronte al quale non si erge alcuna negativo, mi aveva detto un giorno Swamiji. Alla sua fonte, quell’energia in noi atmashakti è soltanto una forza d’espressione, prima che si possa dire se si ricolleghi a Brahma, l’aspetto creativo, o a Shiva, l’aspetto distruttivo della manifestazione universale.
Di solito voi non avete esperienza in voi e fuori di voi che di ‘coppie di opposti’: buono-cattivo, gradevole-sgradevole, bello-brutto, bene-male, successo-insuccesso. Sino a quando rimarrete prigionieri del mondo della dualità, sarete asserviti al desiderio del loro aspetto felice e alla paura del loro aspetto doloroso. E’ un vicolo cieco. E’ necessario elevarsi su un altro piano. E per trovare l’Ultimo, il riposo nella luce, la calma di un lago senza increspature, l’oceano che si manifesta nelle onde, il cammino consiste nella scoperta dell’energia nella sua forma non ancora divisa in polarità contrarie e non ancora specializzate: unicamente la potenza della vita.
Ci tengo a ripeterlo, la vita è unicamente positiva. E’ la sua espressione che prende la forma della creazione e della distruzione, e noi, noi rimaniamo prigionieri di quel livello. La Vita è immortale, la Vita è eterna, la Vita è infinita. E’ la vostra vita in voi, perché voi non ne conoscete se non la superficie, che vi sembra inesorabilmente condannata alle opposizioni. Ma se non avete più paura di voi stessi, se non vi fermate a qualche idea di generosità o di padronanza di sé che è giusta se è ben compresa, ma che può essere il punto d’appoggio della nostra ipocrisia nei confronti di noi stessi, se voi siete fedeli a voi stessi per quello che siete ogni giorno, potete scoprire in voi la vita non duale, la scomparsa dei contrari (le dvanda come si dice in sanscrito, sulle quali insiste tanto la Bhagavad Gita).
Questa non-dualità, questa riconciliazione armoniosa dei contrari nel diagramma dello yin e dello yang abbracciati in un cerchio, questa trascendenza degli opposti, non si realizza soltanto a livello dell’Assoluto, del Non-Manifestato, del Vuoto (shunyata). Si rivela anche a livello della vita, della forza della manifestazione, dell’energia. E’ questa che può salvarvi: E’ questa che potete scoprire innanzi tutto, ed è a questo livello che potete stabilirvi innanzi tutto.
Non potete stabilirvi nel grande silenzio del nirvana se non avete prima messo radici a livello dell’energia fondamentale non ancora divisa in polarità contrarie. Non cercate unicamente nella meditazione uno stato sopracosciente, distaccato da tutto, anche se questo stato è reale e sarà un giorno lo sfondo della vostra esistenza, quali che siano le vicissitudini. Non raggiungerete mai ciò che giustamente desiderate, se rifiutate ciò che ne è espressione, vale a dire la shakti in voi, la potenza quasi spaventosa della vita che vi anima.
E’ vero che certe forme di meditazione possono condurre a quella prima tappa, nella fattispecie ogni approccio divulgato in Occidente da Karlfried von Dürckheim e che io ho approfondito non soltanto accanto ai maestri giapponesi ma anche accanto agli yogi tibetani, e che consiste nel riscoprire la forza della vita nel bacino, nel ventre, nello hara, attraverso la respirazione e soprattutto l’espirazione.
E’ una forma di meditazione preziosa, ma non si tratta di cercare direttamente l’atman, l’assoluto, bensì di cercare in primo luogo la potenza della vita in noi in uno stato non conflittuale, non diviso. E la potete scoprire più facilmente di quanto non possiate realizzare l’atman che ne è la fonte. E’ anche la chiave dello yoga: rifare in senso inverso il cammino della manifestazione, andare dal più grossolano al più sottile, dalla molteplicità all’unità. La ‘Manifestazione’ è un’espressione dell’energia, quindi noi risaliamo in noi stessi il cammino dell’energia. E avvertiamo nella meditazione in primo luogo un’impressione di forza, di potenza, di vitalità non conflittuale, prima di ogni divisione in positivo-negativo, creazione-distruzione, e in tutti i contrari.
Il più alto stato di coscienza che ci sia possibile raggiungere consiste nell’essere stabili in questo stato di non-dualità, di non-contraddizione che si può chiamare l’Inalterabile, l’Indistruttibile, in cui in effetti ogni questione di morte non si pone più e che paragono a mia volta allo schermo del cinema sul quale si proietta un film, Shiva in meditazione e non più Shiva che danza. Ma per stabilizzarvi permanentemente a questo livello dovete ripercorrere all’inverso il cammino della manifestazione per tornare al non-manifesto, dal momento che questo livello sottende tutte le peripezie della vostra attività e vi permette di liberarvi completamente dall’identificazione con il personaggio che siete, col suo nome, la sua storia, le sue predisposizioni, il suo karma. Si lascia innanzi tutto il livello abituale delle opposizioni e delle contraddizioni nel dominio delle emozioni, delle sensazioni, delle idee e degli stati d’animo, si ritrova l’energia fondamentale e con l’aiuto di questa shakti si ritorna all’atman da cui essa ha origine. Per cominciare, accettate senza paura l’integrità di voi stessi. La meditazione quindi non è soltanto la ricerca del non manifestato, è anche la ricerca dell’origine della manifestazione, dell’energia in se stessa.
Certo, non potete consacrare la vostra esistenza alla coscienza di una grande forza vitale in voi, sempre più intensa , una forza vitale totalmente rassicurante, quella che vi anima prima come embrione, poi come neonato. Siete spinti a vivere il vostro personale karma, il vostro destino, in ogni caso il prarabdhakarma, il karma che porterà comunque i suoi frutti sia se abbiamo raggiunto l’illuminazione, il risveglio interiore, sia se non l’abbiamo fatto.
Ma sul cammino della saggezza dovete osare vivere, è certo. E’ inutile aspirare alla liberazione suprema, all’infinito, a tutte le grandi realtà spirituali di cui sentite parlare, se non si osa giocare al gioco della vita, esporsi, prendere dei rischi. Guardate i rischi che alcuni corrono in montagna, al mare, nelle corse automobilistiche. Guardate i rischi che vi fa correre la follia della vostra mente, una passione amorosa che compromette tutto l’equilibrio della vostra esistenza, compresa la felicità di chi vi sta attorno e forse la vostra situazione finanziaria. Guardate i rischi che correte meccanicamente quando siete condotti semplicemente da una serie di azioni e di reazioni di cui siete incapaci di assumervi le conseguenze, e vi lamentate e chiedete aiuto, quando siete voi stessi gli artefici del vostro destino. E poiché avete paura, sperate che la spiritualità vi aiuti a fuggire l’esistenza con qualche bella giustificazione. Questi rischi che così spesso vi assumete inconsciamente, assumeteli consciamente.
Oso. Sarò criticato? Sarò criticato. Soffrirò forse, le cose non andranno come desideravo. Tutto è pericoloso. Non si può vivere pienamente senza correre alcun pericolo. Non si può vivere la saggezza se si rifiuta di vivere. Essere innamorati è pericoloso. “Oh, ma il saggio…”. D’accordo, non immaginiamo un saggio innamorato nel senso ordinario della parola ma a vent’anni non si può giocare alla saggezza. Nemmeno a quaranta. Ed è proprio ciò che Swamiji mi ha mostrato con forza e intensità a un certo punto del mio cammino.
Non possiamo vivere senza assumerci il rischio di soffrire, sino a quando non abbiamo scoperto il segreto che ci pone al di là della sofferenza, quali che siano le circostanze della nostra esistenza, segreto che cerco di dividere con voi e che sottende tutte le pagine dei libri pubblicati col mio nome. Comunque soffriremo. Allora perché non accettarlo deliberatamente una volta per tutte: “Soffrirò, l’accoglierò come un arricchimento, come una pienezza della vita. Lo vivrò come un ritorno alla mia verità, ne farò un cammino di purificazione, lo prenderò come un punto d’appoggio per trascendere la sofferenza”. Soffrirò sentendo: “Che la volontà di Dio sia fatta”, o “oggi è la volontà di Dio che io soffra perché corrisponde alla mia realtà, e perché lì risiede la mia speranza di raggiungere un giorno l’al di là di tutto”. A partire da lì, dalla sofferenza, posso vivere senza paura: “The way is not for the coward, Arnaud”, “Il cammino non è per i vigliacchi, Arnaud”. E la mia vigliaccheria era quella paura di vivere che portavo in me, quella povertà che Swamiji mi mostrava in piena luce, che ha origine nell’infanzia e nell’educazione, e che io giustificavo allora attraverso la menzogna, in nome di verità spirituali giuste ma di cui la mia mente si era impadronita per barare meglio.
Una volta chiarita questa verità, Swamiji fece intervenire un’altra nozione che è quella di dignità. Non appena sono riunificato con me stesso, non appena ho scelto la verità integrale, non appena sono pronto a vivere e a ricevere i colpi della vita per ottenere la mia libertà, mi trovo a confronto con un’esigenza di dignità. Cosa è conforme alla mia dignità? Cosa al di sotto?
Se avete il coraggio di non reprimervi, di non mentire più a voi stessi, se nella meditazione volete cercare la potenza della vita e non soltanto il silenzio del nirvana, questa parola ‘dignità’ assumerà molto velocemente un significato. Con questa parola così preziosa tutta la morale si trova ricostituita a un altro livello: “It is below my dignity”, “Non mi posso abbassare a questo”. Ma tale certezza nasce in me. Non è più la voce dei genitori che parla ancora in noi. Non è più la voce della teologia, né quella di una morale imposta, è una voce che sale in noi stessi che è pura e giusta e ha la funzione di guidarci “It is below my dignity”, non è degno di me comportarmi così oggi.
Come ho detto, quello che tra qualche anno non sarà degno di voi, potrebbe esserlo oggi. “Be faithful to yourself, as you are situated here and now”, “Sii fedele a te stesso così come sei qui e ora”, con la speranza che tra qualche anno non sarete più quello che siete oggi. E ciò che oggi vi è impossibile vi sarà possibile domani, il distacco, uno stato dell’essere differente.
Ma a questa nuova libertà non potrete avere accesso se ci sono in voi elementi di negazione e di rifiuto, se c’è paura della meravigliosa potenza vitale che vi anima.
Perché siate ben convinti che non vi richiamo a scatenare delle forze incontrollabili e delle pulsioni irresistibili, a violare la morale e i tabù, cosa che vi farebbe immediatamente paura, divido con voi questa parola che Swamiji mi ha donato come un tesoro: dignity, dignità. “You yourself in your own intrinsic dignity”, “Voi, voi stessi nella vostra intrinseca dignità”. E’ il richiamo permanente che Swamiji ha fatto risuonare in me . E’ degno di me? Non si tratta più di una voce venuta dall’esterno ma di una convinzione che sale dal profondo. Vedrete quanto questa parola ‘dignità’ vi guiderà, se non mentite più a voi stessi e se ritrovate la pienezza della vostra forza vitale. Ecco la mia verità di oggi, non baro più. Agisco. Mi accetto come sono, non gioco più a essere un falso Ramana Maharshi o una caricatura di Ma Anandamay (questo è il pericolo quando siamo veramente attirati dalla vita spirituale, ma non ci siamo completamente stabiliti nella verità). Non ho più paura di me stesso. Mi libero da questa paura di me. Oso volere. Oso sentire la mia forza, oso sentire le pulsioni risvegliarsi. Dignità: che cosa faccio? Come agirò? Che cosa è giusto per me oggi? Che cosa mi può far progredire?
Dovete riconciliare il manifestato e il non manifestato, lo statico e il dinamico, il maschile e il femminile, l’attivo e il passivo. Evidentemente sono parole, una sfilza di parole, ma la verità si vive interiormente come un’esperienza, come una realtà.
Ma se insisto oggi con voi su questo messaggio – non restate storpi affettivamente, in superficie, non vivete nella non-verità, un-thruth- aggiungo subito la parola ‘dignità’. Altrimenti andrete chissà dove e vi crederete liberi perché sputate sulla morale della vostra infanzia e pestate i piedi al vostro prossimo. Quando scoprirete in voi la potenza dell’energia della vita non ancora contraddittoria, il mondo degli opposti acquisterà un nuovo significato. Improvvisamente vedrete più in profondità del gioco degli opposti, improvvisamente comincerete a intravedere dietro l’apparenza, l’essenza, la profondità dietro la superficie. Cominciate col vedere come dice la Genesi, che questa Creazione che sembra così crudele, è buona.
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E’ questa creazione così com’è che ci conduce al bene ultimo. Quando avrete potuto scoprire in voi uno stato dell’essere senza conflitto, saprete che la realtà ultima è al di qua delle polarità, perché l’avrete sperimentato non rinnegando nulla della vita in voi. Al di là di tutte le contraddizioni laceranti di questo mondo, di tutte le sofferenze, si rivela un senso che vi era sfuggito sino allora, un positivo assoluto, l’eternità, l’immortalità, una realtà unicamente luminosa. Ma non potete tentare di scoprirla senza seguire il cammino della verità, vale a dire senza partire dalle forme più grossolane di energia per risalire verso le forme più sottili, verso la fonte stessa dell’energia, l’indicibile silenzio del profondo. Ah, quanti sono quelli che credono di aver paura della morte e che hanno in realtà paura della vita e di loro stessi! Quanto credete poco in voi stessi, quanto l’esistenza vi ha messo in testa sfiducia se non addirittura odio per voi stessi! Che errore! Osate vivere. Cominciate semplicemente e osate almeno respirare. Osate sentire. E più avete paura della ricchezza, della pienezza, della potenza della vita, più diventate schiavi della testa e dei pensieri. La mente è essenzialmente il frutto di questa paura di vivere . Vi rifugiate in un mondo di idee perché in tale mondo soggettivo potete fare quello che volete. I pensieri corrispondono a nostre tendenze ripetitive che possiamo indefinitamente rimuginare. Più si vive meno si pensa, più si pensa meno si vive. E coloro che sono assillati dalle fantasie della mente, tagliati fuori dalla realtà, possono intendere anche questo messaggio: l’importante non è pensare, l’importante è sentire.
Perché questa parola ‘sentire’ è sospetta per chi si picca di spiritualità o per chi è legittimamente attirato dalle forme più alte di spiritualità? Avere paura di sentire significa veramente credere che la Creazione sia cattiva, che soprattutto non si deve giocare al gioco della natura. Ma non potete scoprire il segreto ultimo se non partecipate al gioco cosmico sotteso e animato da Dio stesso.
Allora vi dico anche: più pensate meno sentite, più sentite meno pensate. E’ uno dei primi aiuti che vi possono essere dati per vivere è cominciare a osare sentire, senza paura, anche a livello sensuale, sensoriale, molto semplicemente sensualità, sensorialità da cui siamo sempre più tagliati fuori dallo strapotere dell’intelletto. E soprattutto si tratta di assumere per armonizzarli i due poli della realtà in noi, i valori femminili e quelli maschili, lo yin e lo yang, il valore dell’azione e il valore della contemplazione.
Che siamo uomini o donne, meno osiamo vivere e sentire e più ci rifugiamo nell’aspetto maschile dell’esistenza e cerchiamo di agire, di fare qualche cosa, di fare sempre qualche cosa; è il contrario della meditazione, della contemplazione, la nevrosi dell’attivismo. “Che cosa c’è da fare?” Al punto che anche sulla Via, il maestro si deve ingegnare per trovare sempre nuovi esercizi da proporvi! Più privilegiate l’aspetto maschile sull’aspetto femminile, più vi impedite di sentire e vi condannate a pensare. Ma i valori maschili dell’attività hanno qualcosa di rassicurante, fosse pure in maniera nevrotica.
Mentre i valori femminili detti di apertura, hanno una dimensione in qualche modo spaventosa. A chi mi aprirò? I valori della ricettività e dell’accoglienza sembrano pericolosi! E se mi apro a ciò che si esprime in me stesso è altrettanto pericoloso. E’ facile leggere Pour une vie réussie di Arnaud Desjardins, con i suoi capitoli consacrati al maschile e al femminile in noi, o leggere ciò che può dire Dürckheim sulla ‘coscienza freccia’ e sulla ‘coscienza coppa’. Il mondo moderno ha privilegiato in modo disastroso i valori maschili su quelli femminili, la ragione sulla sensibilità, la testa in tutti i campi, l’azione sulla contemplazione. Il femminismo non segna il ritorno al rispetto dei valori femminili ma la possibilità per le donne di essere ancora più maschili degli uomini stessi, il che ha come conseguenza che tutti rinnegano i valori femminili che sono tuttavia preziosi tanto per gli uomini quanto per le donne.
Vivere significa fare spazio il più presto possibile e nel modo più completo possibile ai valori femminili, e domandarci che senso diamo noi alla parola ‘apertura’. Non c’è dilatazione del cuore senza apertura dal cuore e se “l’Islam è la dilatazione del petto”, non c’è dilatazione del petto senza apertura. E aprirsi significa aprirsi senza imbrogliare. Non potete chiudere tutte le porte, esteriori e interiori, e aprirvi alla grazia di Dio. La grazia di Dio può arrivare a voi solo attraverso le prove più crudeli, il tradimento di quelli in cui avevate fiducia, il rifiuto, tutto ciò che una volte ci era parso terribile. Tutto è Grazia. Aprite sempre, è sempre Dio che bussa alla porta. Aprirsi significa aprirsi con tutto il proprio cuore. Sviluppare i valori femminili della ricettività e dell’accettazione significa svilupparli in tutti i modi. Consiste nel non proteggersi più. Se ti schiaffeggiano porgi l’altra guancia, come ha detto il Cristo. Significa aprirsi alla forza vitale in noi, e non cercare di fuggire nella meditazione le paure che portiamo in noi stessi. Una parte dei vostri progressi potete farli attraverso felici forme di psicoterapia. Il lying rappresenta l’apertura alla forza vitale nella sua forma conflittuale, le gioie più grandi ma che non sono durate mi fanno singhiozzare e per liberarmene oso affrontare e rivivere oggi le più grandi sofferenze che mi hanno inchiodato, ucciso. E la meditazione è l’apertura allo slancio vitale non duale, non conflittuale. E’ scoprire semplicemente: Vivo! Sto vivendo, animato da quella energia infinita che non è la mia vita, ma la Vita. Tutto qui. Supero la mia vita, nella quale inevitabilmente soffoco, quali che siano i miei successi e scopro che sono l’espressione o una forma della Vita Universale dell’energia divina, quella che anima gli uccelli che ascoltiamo cantare, le foglie mosse dal vento, i piccoli germogli verdi in primavera, la vita che anima ogni atomo e che prende in noi la forma più evoluta, prajna: conoscenza, saggezza, comprensione.
Il lying di Swamiji Prajnanpad è l’apertura alla forza della vita nella sua forma conflittuale così da non temerla più. Ho osato affrontare la sofferenza a faccia a faccia nel lying, e allora posso ora affrontarla nell’esistenza senza timori né rifiuti. E a poco a poco vi liberate dalla sofferenza.
E la meditazione non consiste soltanto nel cercare il vuoto e il silenzio del non-manifestato. Significa anche cercare la non-dualità, l’assenza di conflitto nel sentimento di esistere. Così diveniamo esseri umani integrali e possiamo crescere, realizzarci, dispiegarci. Possiamo sentire la forza vitale salire in noi nella sua pienezza. Sradicate le vecchie paure inconsce di voi stessi, le vecchie paure dell’infanzia: “Di quali sciocchezze sono ancora capace se non mi reprimo! Più vivrò in modo ristretto, meno rischierò di essere punito”. E se l’insegnamento o il guru deve significare una serie di divieti: ‘la morte dell’io’, la ‘mortificazione’, ‘la rinuncia’, ‘il sacrificio’, allora la spiritualità non sarà che una menzogna e non arriverà da nessuna parte.
Non potete amare se non amate voi stessi. Non potete amare voi stessi se avete paura di voi stessi. Non potete evitare la paura di voi stessi se fuggite di fronte a voi stessi. E se fuggite, vi esaurite per rimanere alla superficie di voi stessi e dell’esistenza. Come volete raggiungere la profondità?
Non abbiate paura. La forza della vita in noi, in voi, in ciascuno, è soltanto rassicurante se la scopriamo alla sua sorgente. Se trovate la via, se osate vivere, se osate aprirvi, vedrete quanto ciò che oggi domina la vostra esistenza, le paure, le sofferenze, i drammi, gli attaccamenti, le emozioni, i pensieri che vi buttano giù, quanto questa schiavitù comincerà a sciogliere i suoi lacci.
Scegliete di vivere.
(Da: “L’Audacia di Vivere” di Arnaud Desjardins)
– Arnaud Desjardins (amazon)
– Arnaud Desjardins (macrolibrarsi)
– https://en.wikipedia.org/wiki/Arnaud_Desjardins
– Fonte