Le autoconnotazioni distruttive, una sorta di etichette negative pressoché subliminali, ma comunque introiettate in profondità nel corso di numerosi anni che ti esimono dall’impegnarti a cambiare o, per lo meno, a riconoscere le tue vere potenzialità, ciò che sei veramente, uno spirito sostanzialmente libero, un’animus che potresti desincronizzare e resettare. Come? Con il semplice sostegno della consapevolezza e, di converso, di determinati approcci meditativi.
Origine e vantaggi nevrotici delle autoconnotazioni distruttive – Wayne W. Dyer
I precedenti si dividono in due categorie.
– Le etichette del primo tipo sono quelle affibbiate dagli altri. Te le hanno messe che eri bambino, e te le sei portate addosso fino a oggi.
– Le altre sono il risultato di una tua scelta, fatta per scansare incombenze sgradevoli o difficili.
La prima categoria è di gran lunga la più cospicua.
La piccola Hope frequenta la seconda classe elementare e ogni giorno ha educazione artistica: è tutta contenta di dipingere e pasticciare coi colori. Un giorno la maestra le dice che non è poi tanto brava, e lei comincia ad assentarsi perché le dispiace di essere stata disapprovata. Di lì a poco, le viene un principio di “Io non sono…” — in questo caso: “Io non sono brava in arte”. Rafforza tale nozione comportandosi in modo da evitare, quanto può, i fastidi, e da grande, quando le si domanda come mai non sa fare un disegno, risponde: “Non sono capace. Non lo sono mai stata”. La maggior parte delle autoconnotazioni sono dei residuati di un’epoca in cui sentivi dire frasi come: “È piuttosto goffo. Suo fratello è bravo in atletica; lui è più studioso, invece”; oppure “Sei proprio come me. Anch’io ho sempre scritto facendo un mucchio di errori di ortografia”; oppure “Billy è sempre stato il timido della famiglia”; oppure “È tutta suo padre: stonata come una campana”. Con questi “riti” si nasce a un’esistenza che non pone mai in dubbio le autoconnotazioni; queste vengono semplicemente accettate come una condizione di vita. Parla con le persone che secondo te sono le maggiori responsabili di molte tue autoconnotazioni (genitori, vecchi amici di famiglia, vecchi insegnanti, nonni, ecc.). Domanda come ritengano che tu sia diventato quale sei, e se tu lo sia sempre stato. Annuncia che hai deciso di cambiare, e vedi se te ne credono capace. Resterai sorpreso dalle loro interpretazioni nonché dal loro scetticismo circa le tue possibilità di essere diverso, dal momento che “Sei sempre stato così”.
Le autoconnotazioni della seconda categoria hanno origine in quelle etichette che hai appreso ad attribuirti per evitare attività sgradevoli. Ho un cliente di 46 anni che desidera moltissimo studiare a livello di college, dato che a suo tempo non ha potuto farlo a causa della seconda guerra mondiale. Ma la prospettiva di competere coi dei giovincelli appena usciti dalla scuola media superiore non sorride affatto a Horace. Horace teme di non riuscire, dubita delle proprie capacità intellettuali. Sfoglia regolarmente gli annuari di varie università, e con l’aiuto ricevuto al consultorio ha dato gli esami preliminari e ha superato un colloquio per venire ammesso in un college. Tuttavia si serve ancora delle sue autoconnotazioni per non impegnarsi, per evitare di fare ciò che deve. Giustifica l’inazione con dei “Sono troppo vecchio, non sono abbastanza intelligente, non ho un vero interesse”. Horace se ne serve per evitare una cosa che desidera veramente; un mio collega se ne serve per scansare cose che non lo divertono. Non ripara il campanello della porta o la radio e, a farla breve, evita altre noiose attività manuali ricordando alla moglie: “Vedi, cara, non so niente di meccanica”. Si tratta di comportamenti arrendevoli; sono ciò nondimeno dei pretesti. Anziché dire che una cosa è noiosa o non interessa, e che in quel momento non si desidera farla (il che sarebbe perfettamente logico e salutare), è più facile buttar lì un’autoconnotazione. In questi casi si sta dicendo qualcosa intorno a se stessi, e in particolare: “Sono un prodotto finito e non sarò mai diverso”. Se sei un prodotto finito, confezionato e messo via, hai cessato di crescere, e se da una parte puoi benissimo voler conservare determinate etichette, dall’altra potresti trovarne alcune limitanti e distruttive.
Elenco più sotto alcune etichette che sono delle reliquie del passato. Se qualcuna ti appartiene, può darsi che tu voglia cambiarla. Restare esattamente quale sei in un determinato campo, significa prendere una delle mortali decisioni descritte nel cap. 1. Tieni presente che questa non è una rassegna delle cose che semplicemente non ti divertono, bensì un rapido esame di un comportamento che ti vieta attività dalle quali potresti trarre grande piacere e soddisfazione.
1. Non sono bravo in matematica, Non conosco l’ortografia, Non so leggere, Non ho attitudine alle lingue, ecc.
Garantiscono tutte che tu non metterai l’impegno necessario per cambiare. L’autoconnotazione di tipo scolastico mira ad evitarti la fatica di impadronirti di una materia che hai sempre trovato difficile o noiosa. Fintanto che ti definisci inetto, hai una ragione bell’e pronta per evitare di metterti d’impegno.
2. Sono una schiappa in cucina, negli sport, all’uncinetto, in disegno, in recitazione, ecc.
Assicurano che in futuro non avrai nulla da fare in questi campi, e giustificano un qualsiasi scarso rendimento in passato. “Lo sono sempre stato, è nella mia natura”: è un atteggiamento che rafforza la tua inerzia e, cosa più importante, ti aiuta a restare aggrappato al concetto assurdo che non devi far nulla se non veramente bene. Per cui, a meno che tu non sia un campione del mondo, ti conviene non fare piuttosto che fare.
3. Sono timido, riservato, suscettibile, nervoso, ho paura, ecc.
Queste chiamano in causa la genetica. Anziché sfidare queste autoconnotazioni e la mentalità autodistruttiva che le sostiene, le accetti a conferma della fissazione che saresti sempre stato così. Oppure puoi dare la colpa ai tuoi genitori, servirti di loro per identificare in essi la ragione della tua etichetta. Ne fai la causa, e non devi far nulla per essere diverso. Scegli tale comportamento perché ti permette di evitare di affermare la tua personalità in situazioni che per te sono sempre state ostiche. È un residuo di un’infanzia in cui gli altri avevano interesse a farti credere che eri incapace di pensare con la tua testa. Si tratta di autoconnotazioni vertenti sulla personalità. Queste autodefinizioni ti aiutano a scansare l’ardua impresa di essere diverso da come sei sempre stato. Definisci la tua personalità con l’etichetta adatta, e puoi giustificare ogni sorta di comportamenti fallimentari col fatto che non sarebbero in tuo controllo. Annulli il concetto che tu possa scegliere la tua personalità, e ripieghi invece su quella che sarebbe una tua sfortuna genetica per spiegare alla svelta certi tratti della tua personalità che preferiresti non avere.
4. Sono goffo, scoordinato, ecc.
Le hai imparate da fanciullo. Sono autoconnotazioni che ti consentono di non cadere eventualmente nel ridicolo, dal momento che non sei fisicamente agile e dotato come altri. La tua incapacità ha, naturalmente, tutta una storia dietro di sé. Tu hai creduto in queste etichette e hai evitato l’attività fisica. Dunque non si tratta di un tuo limite intrinseco. Diventi bravo se ti eserciti, non se scansi gli allenamenti. Seguita pure a startene ai bordi del campo, a guardare gli altri e a dirti “Magari potessi io…”, ma lasciando credere che sono cose che non ti piacciono!
5. Sono poco attraente, brutta, ossuta, piatta, troppo alta, ecc.
Queste autoconnotazioni inerenti al fisico servono a non farti correre rischi con l’altro sesso, e a giustificare l’immagine mediocre che hai di te stessa nonché la mancanza di amore nella tua vita. Fintanto che ti descrivi così, hai la scusa pronta per non concorrere a un rapporto amoroso e, oltrettutto, per non apparire bella nemmeno ai tuoi occhi. Ti servi dello specchio per giustificare la perdita delle occasioni. Il problema è uno solo: vedi esattamente ciò che vuoi vedere, perfino nello specchio.
6. Sono disorganizzato, meticoloso, sciatto, ecc.
Queste etichette inerenti al comportamento servono per manipolare gli altri e per giustificare il modo di fare certe cose. “…Ho sempre fatto così…” Come se fosse una buona ragione per continuare la tale o tal altra consuetudine, “…E sempre così farò!” è il messaggio lasciato intendere. Se ti regoli su come hai sempre fatto, ti risparmi il rischio anche solo teorico di fare diversamente, e nel contempo puoi ottenere che anche tutti coloro che ti circondano facciano come fai tu. Sono autoconnotazioni che sostituiscono la “politica” alla ragionevolezza.
7. Dimentico tutto, sono imprudente, irresponsabile, apatico, ecc.
Particolarmente utili quando vuoi vendicarti della tua inefficienza. Ti risparmiano di correggere la tua distrazione, la tua imprudenza o negligenza, e ti scusi col tuo “Questo sono io”. Fintanto che puoi buttar lì questa frase, non sei tenuto a cercare di cambiare. Continua pure a dimenticare tutto, e a rammentarti che non puoi farci nulla, cosi dimenticherai sempre tutto!
8. Sono italiano, tedesco, ebreo, irlandese, negro, cinese, ecc.
È la tua etichetta, per così dire, etnica. Funziona assai bene quando hai esaurito le ragioni per spiegare certi tuoi modi che non ti fanno onore, ma che hai tanta difficoltà a correggere. Ogni volta che ti comporti in un modo stereotipato connesso alla tua cultura, tiri fuori le tue origini per giustificarti. Una volta domandai a un maitre perché si scalmanasse tanto e al minimo problema urlasse in modo esagerato. “E che cosa vuole da me?”, rispose. “Sono italiano. Che ci posso fare?”.
9. Sono prepotente, aggressivo, autoritario, ecc.
In questo caso la tua autoconnotazione può permetterti di seguitare ad agire in malo modo, invece di cercare di disciplinarti. Sul tuo modo di agire passi una mano di vernice con: “Non posso farci nulla. Sono sempre stato così”.
10. Sono vecchio, nella mezza età, stanco, ecc.
E con ciò usi a pretesto la tua età per non partecipare ad attività che potrebbero presentare dei rischi. In vista di una riunione sportiva, di un appuntamento (dopo un divorzio, o dopo la morte del coniuge), di un viaggio o alcunché di simile, puoi sempre dire: “Sono troppo vecchio”, e avrai eliminato ogni rischio inerente al tentativo di far qualcosa di nuovo e che favorisce la crescita. Implicito in una di queste autoconnotazioni relative all’età, è che tu hai assolutamente “chiuso” con certe cose, e siccome fino alla morte invecchierai sempre, hai altresì finito di crescere e di provare nuove emozioni.
(Da “Le vostre zone erronee”, Wayne W. Dyer)
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– Fonte