Nāgārjuna, filosofo e monaco buddhista indiano, vissuto tra il II e il III secolo d.c., ha scritto: «I Buddha dicono che la vacuità è l’eliminazione di tutte le opinioni. Coloro per cui anche la vacuità è un’opinione sono inguaribili».
Dunque, la vacuità non è un concetto e si è inguaribili se la si riduce a un concetto, perché ancora una volta finiremmo per non vivere un sapere che ci trasforma ma per ingessare un discorso che ci conferma.
La fine di tutte le opinioni significa scorrere in costante flusso con la corrente della vita, con la Via. La vacuità non è uno stato, è un percorso, e le opinioni che vanno frantumandosi nel camminare sulla Via sono i nostri concetti fondamentali, i nostri assiomi, come la nascita, la morte, la solidità di un centro immutabile in noi e in quello che ci circonda. L’idea di uno e quella di molti. La vacuità è una lode alla non dualità. E al silenzio.
È dinamica e trasforma senza avvertirci, lentamente, come una pioggia fine che ci inzuppa. Quasi sempre, noi non incontriamo gli altri, ma le opinioni che abbiamo su di loro; non incontriamo le loro visioni ma la nostra reazione alle loro visioni, non usciamo quasi mai dallo schema della ragione e del torto. Perdere questa fissità trasforma ogni secondo della vita, senza strepito.
Nella visione del Buddha non esiste l’alternativa drammatica e ristretta della nostra concettualità dualistica tra la dipendenza e l’indipendenza, sono solo fissazioni, nella sua visione camminante esiste come trama al di sotto di tutti i fenomeni l’interdipendenza, o interconnessione, ed è proprio questa la vacuità.
« “Ānanda, tra gli elementi interconnessi che hanno fatto si che la ciotola esista, vedi l’acqua?”
“Certo, signore. Il vasaio ha avuto bisogno di acqua per impastare l’argilla e modellare la ciotola”.
“Dunque l’esistenza della ciotola dipende dall’esistenza dell’acqua. Inoltre, Ānanda, vedi l’elemento fuoco?”
“Certo, signore. E stato necessario il fuoco per cuocere l’argilla, dunque vedo in essa fuoco e calore”
“Che altro vedi?”
“Vedo aria, senza la quale il fuoco non si sarebbe acceso e il vasaio non avrebbe respirato. Vedo il vasaio e l’abilità delle sue mani. Vedo la sua coscienza. Vedo il forno e la legna che l’ha alimentato. Vedo gli alberi che hanno fornito la legna. Vedo la pioggia, il sole e la terra che hanno fatto crescere gli alberi. Signore, vedo migliaia di elementi interconnessi che hanno concorso alla formazione di questa ciotola”.
“Eccellente, Ānanda! Contemplando questa ciotola si vedono in essa gli elementi interdipendenti che le hanno dato origine. Questi elementi, Ànanda, sono all’interno e all’esterno della ciotola. Un elemento è la tua Stessa coscienza. Ànanda, se tu togliessi il calore per restituirlo al sole, se restituissi l’argilla alla terra, l’acqua al fiume, il vasaio ai genitori e la legna alla foresta, esisterebbe ancora la ciotola?”
“No, signore. Restituendo alla loro origine gli elementi che hanno concorso alla formazione della ciotola, questa non esisterebbe più” » .
Mi sembra un cantico delle creature, del legame e del flusso, dei fondali e delle onde, dei pieni e dei vuoti.
Il Maestro thailandese Ajahn Chah beveva il tè sempre dalla stessa tazza, la sua tazza preferita. Un giorno, un discepolo gli chiese: «Ma tu non ci insegni il non attaccamento? Perché hai una tazza preferita?» E Ajahn Chah gli rispose: «Ah sì, è la mia tazza preferita, ma vedi, per me è già rotta».
La quotidiana frequentazione del vuoto è lasciarsi istruire dal vuoto.
Le attese di cui la nostra giornata è seminata sono possibilità di lasciar andare ogni pensiero, anticipazione, reazione, e sentire, percepire nel corpo la pausa che è soglia di vuoto. Attese respirate.
Quando qualcuno arriva, quando qualcuno se ne va, sostare prima del suo apparire e dopo il suo scomparire, non perdere i momenti di transizione.
Aver fame e attardarsi a sentire com’è quel vuoto che tutto il corpo grida di voler riempire.
Essere stanchi e aprirsi ad assaporare com’è il bisogno di buttarsi nel baratro soffice dell’assenza, nel sonno.
Bere una tazza di tè e contemplarla quando resta vuota.
Inchinarsi vuoti al vuoto, nel toccare la terra con la fronte, sfilarsi pensieri, preoccupazioni, ansie, timori e non sostituirli con altre attese e altri concetti, entrare nella meraviglia della prima volta.
Il linguaggio del Buddha è senza certezze né sicurezze, non delinea mai un’affermazione che possa essere cementata in un concetto spesso parla al negativo; elencando tutto quello che qualcosa non è si arriva a intuire cosa possa essere per sottrazione, come Michelangelo che diceva che per scolpire un elefante, levava tutto quello che non è elefante. Cosi, non solo scoraggia l’attaccamento ai concetti e alle sicurezze del convenuto e a non crearne di nuovi, ma delinea la possibilità di un percorso dove all’invito di: «Vieni e vedi», possiamo rispondere solo mettendoci in cammino e scoprendo con i nostri occhi la realtà.
La completa liberazione, la meta ultima della Via, è il Nibbāna. La parola è formata da nis e vāna. Nis è una particella negativa e vāna significa “brama”, la fine della brama, il non attaccamento. Fine della nostra divorante fame, della nostra infuocata sete.
Passo passo, respiro dopo respiro inoltrandoci nel non-conosciuto.
[Da: Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione“]
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– https://it.wikipedia.org/wiki/Chandra_Livia_Candiani