Osservando il dolore nel mondo intorno a noi e nei nostri stessi corpi e menti, cominciamo a comprendere la sofferenza non soltanto come problema specifico, ma come esperienza universale: è uno degli aspetti dell’essere vivi. La domanda che allora viene alla mente è: «Se la pietà risulta dalla consapevolezza della sofferenza, perché il mondo non è un posto più compassionevole?».
Il problema è che i nostri cuori spesso non sono aperti all’esperienza del dolore, lo fuggiamo, ci chiudiamo e ci rendiamo insensibili. Chiudendoci alla sofferenza, tuttavia, ci chiudiamo anche alla scaturigine della pietà. Non c’è bisogno di essere particolarmente santimoniosi per essere compassionevoli. La pietà è la naturale risposta di un cuore aperto, ma la fonte della pietà rimane coperta finché le voltiamo le spalle, oppure neghiamo o resistiamo alla verità evidente delle cose. Quando neghiamo l’esperienza della sofferenza, ci distogliamo da ciò che è genuino per volgerci a ciò che è costruito, ingannevole e fonte di confusione.
(Joseph Goldstein)
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