Kutadanta accusò il Buddha: “M’hanno detto che tu insegni la legge e la via della vita, eppure disprezzi la religione. I tuoi seguaci abbandonano i riti e snobbano i sacrifici. Ma la riverenza per gli dei si può mostrare solo coi sacrifici. La vera natura della religione è adorare e sacrificare”.
Il Buddha rispose: “Più grande del massacro di manzi è il sacrificio dell’io. Colui che offre in sacrificio i propri desideri morbosi comprende l’inutilità di codesto macello d’animali sull’altare. Il sangue non pulisce, ma sporca. La rinuncia alle azioni dannose, invece, rende il cuore integro. Seguire la via della rettitudine è meglio che adorare gli dei“.
(Digha Nikaya)
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Commento
In che consiste il vero sacrificio, nell’auto-infliggersi sofferenze o privazioni, se non persino mortificazioni d’ogni genere? No di certo! Quello è un modo di concepire la spiritualità in guisa del tutto ipocrita. Deprimere, sin dal suo solo nascere, ogni bocciolo di gioia evitando, così, il più semplice contatto con la realtà, equivale solo a fuggire, a nascondersi, a trincerarsi. Al contrario, esperire appieno la vita, le sue passioni, non corrisponde affatto a contaminarsi. In tal senso, riti e celebrazioni sono soprattutto trastulli per continuare a illudersi di aver omaggiato chissà quale realtà trascendente. Come se poi ne avesse davvero bisogno. Dimenticando comunque che culti e cerimonie servono, in primo luogo, a esorcizzare le proprie paure. La consapevolezza dell’unità sostanziale del creato come dell’increato, di tutto ciò che, al momento, ci sembra completo come del vuoto, è l’unica via per superare l’illusoria dicotomia tra gli esseri e le cose.