Da molto tempo sognavo di vedere New York. Ho sempre amato viaggiare, e nei miei precedenti tour negli Stati Uniti avevo già avuto modo di conoscere diverse città come Los Angeles, Miami, Tampa, ma, a parte una breve sosta di transito nell’aeroporto John F. Kennedy, New York era ancora sulla mia lista delle città da visitare.
Così avevo deciso di regalarmi un bel viaggio nella Grande Mela, la città che non dorme mai. Non vedevo l’ora di perdermi tra le strade di Manhattan, fare shopping, ammirare la maestosità dell’Empire State Building, cenare in uno dei caratteristici e suggestivi ristoranti con vista sul ponte di Brooklyn.
Sarei partito da solo. Ero appena uscito da una lunga convivenza durata ben dieci anni e avevo trascorso gli ultimi tre mesi a rimettere insieme i pezzi della mia vita. Desideravo soltanto allontanarmi dai luoghi a me familiari e perdermi in un viaggio che mi avrebbe aiutato a liberare la mente e a ricaricare le batterie per iniziare con rinnovato entusiasmo una nuova fase della mia esistenza.
Leggevo molto in quel periodo. Grazie a scrittori come Napoleon Hill, Charles F. Haanel e Thomas Troward, avevo scoperto un nuovo punto di vista attraverso il quale guardare gli avvenimenti della vita, e stavo arrivando a comprendere che ognuno di noi è il solo e unico responsabile della propria realtà.
L’idea che, attraverso il pensiero, noi siamo in grado di determinare il nostro destino da un lato mi rendeva euforico, dall’altro mi incuteva non poco terrore. Stando alle teorie di questi autori, infatti, gran parte dell’influenza sulla realtà viene da noi esercitata a livello inconscio, quindi totalmente al di fuori del nostro controllo.
Inoltre mi rendevo sempre più conto del fatto che, per una strana legge dell’Universo, le persone presenti nella nostra vita rappresentano sempre e comunque il riflesso di un qualche aspetto del nostro essere. Se cambiamo al nostro interno, anche il mondo esterno dovrà necessariamente cambiare. Ero perciò consapevole di essere stato io a provocare la recente separazione in risposta a una mia trasformazione interiore.
Considerando la fine della relazione da questo punto di vista, era indubbio che il mio percorso di crescita personale e spirituale fosse stato la causa di tutto, e che ora stesse demolendo il mio vecchio mondo per far posto a qualcosa di diverso che rispecchiasse il mio nuovo stato interiore.
Pur essendo consapevole che doveva per forza andare così, questo pensiero non mi consolava. Avrei preferito che il mio subconscio mi avesse interpellato prima di scombussolare la mia vita in modo tanto repentino.
Era infatti la sensazione di mancanza di controllo che mi spiazzava e, devo ammetterlo, mi impauriva.
Ecco perché consideravo il viaggio a New York un prezioso momento di riflessione, una pausa grazie alla quale avrei avuto la possibilità di azzerare il passato, o almeno così speravo, e di cominciare un nuovo percorso senza più ancore o freni emotivi.
La mattina della partenza, un raggio di sole si infilò tra le fessure della persiana e mi colpì sul viso, destandomi da un sonno profondo. La sera prima mi ero coricato presto, dopo aver controllato meticolosamente la valigia che avevo preparato nel pomeriggio. Era tutto pronto, compreso un registratore tascabile per prendere velocemente appunti e fissare le idee o le impressioni che mi fossero venute in mente. L’imbarco era alle 9.50, così avevo impostato la sveglia per le 6.30 e mi ero messo a letto, eccitato come un bambino che si addormenta la notte della Vigilia di Natale pregustando i regali che troverà al suo risveglio.
Aprii gli occhi e guardai l’orologio sul comodino. Magari potevo sonnecchiare ancora un po’. Scoprii con orrore che erano le 9.25. Per qualche stramaledetto motivo la sveglia non aveva funzionato.
Controllai per sicurezza gli altri orologi che avevo in casa. Era drammaticamente chiaro. Avevo perso l’aereo. Mi preparai in fretta e furia per correre in aeroporto e verificare se c’era la possibilità di prendere un altro volo. Non ricordo quanto tempo impiegai per raggiungere il terminal in automobile, ma sono sicuro di aver battuto tutti i record.
Ci misi un po’ a trovare l’ufficio della compagnia aerea, ma appena lo individuai vi entrai trafelato e mi rivolsi alla prima impiegata che vidi, senza preoccuparmi di verificare se fosse il mio turno. Dopo un rapido controllo al terminale, l’impiegata mi comunicò l’amara verità: «Signore, mi dispiace, ma la tipologia del suo biglietto non prevede il cambio di volo».
Vero. Avevo acquistato un last minute a un prezzo stracciato pensando di risparmiare, così adesso, se avessi deciso di prendere un altro aereo, avrei pagato molto più.
«Scusi, non c’è un modo per avere un altro volo, magari pagando una piccola differenza?» chiesi, anzi supplicai, nella vana speranza di suscitare compassione nel cuore della giovane impiegata.
«Mi dispiace, signore. Come le ho detto, il suo biglietto non è convertibile, né rimborsabile. Se vuole partire, l’unica soluzione è quella di acquistare un nuovo biglietto.»
Non osavo immaginarne il costo. Un volo per New York, in piena stagione estiva, può facilmente superare il migliaio di euro. Provai a insistere, dicendo che non potevo rinunciare al viaggio, dato che il mio periodo di ferie sarebbe altrimenti andato sprecato. La risposta, seppur pronunciata con un sorriso e con la massima gentilezza, rimase però la stessa.
Rassegnato, stavo per tirar fuori la mia carta di credito per sottomettermi al salasso dell’acquisto di un nuovo biglietto, quando udii dietro di me una voce molto gentile, con un velato accento straniero.
«Se vuole, forse io ho la soluzione al suo problema.»
Mi voltai e vidi un signore molto distinto, sulla sessantina, dai lineamenti orientali, che aveva assistito a tutta la scena tra me e l’impiegata della compagnia aerea.
«Vede» continuò, «io ho un biglietto per il Tibet, il mio Paese di origine, dove mi sarei dovuto recare insieme a mia moglie per trascorrere una settimana in un monastero.
Purtroppo alcuni giorni fa mia moglie cadendo si è rotta una gamba, quindi siamo impossibilitati a partire. Io mi trovo qui per chiedere il rimborso dei biglietti, ma mi hanno appena detto che non è possibile a ridosso della partenza, mentre è possibile trasferire il viaggio ad altre persone.
So che si tratta di una vacanza del tutto diversa, il Tibet non è l’America, ma se desidera fare un’esperienza davvero nuova, le cedo volentieri tutto il pacchetto, soggiorno compreso. Non deve pagarmelo. Piuttosto che buttarlo via, preferisco offrire quest’opportunità a un’altra persona, e lei, non so perché, m’ispira simpatia. Io e la mia signora saremmo davvero lieti se volesse accettare.»
Tibet? Un monastero? Stavo per ringraziare e declinare l’offerta, ma qualcosa dentro di me mi trattenne. Ricordai di aver letto che il caso non esiste, che qualsiasi evento capita sempre e comunque per un valido motivo, anche se sul momento non si riesce a vederlo.
Tutta una serie di episodi, apparentemente casuali, mi avevano portato a ricevere quell’offerta. La mia sveglia non aveva mai perso un colpo prima di allora, e la probabilità di incontrare uno sconosciuto all’aeroporto che mi offrisse in regalo un biglietto per una vacanza in Tibet, soggiorno compreso, era pressoché zero. In effetti, qualche mese prima, vedendo un documentario in tv, mi era venuto il desiderio di visitare un giorno questo Paese, ma mai mi sarei aspettato che l’Universo mi prendesse in parola fino a questo punto.
Una vocina mi diceva che accettare l’offerta era l’unica cosa sensata da fare. Non perché fosse gratuita, o perlomeno non solo. Sentivo, infatti, che non era il caso di contrastare il destino che, a quanto pare, mi voleva portare a tutti i costi in Tibet.
Accettai allora la proposta di quel signore, ringraziandolo per la generosa offerta. New York, in fin dei conti, poteva aspettare.
La partenza era prevista di lì a sette giorni, giusto il tempo necessario per richiedere il visto d’ingresso per la Cina. La mia vacanza sarebbe stata di una sola settimana invece delle due programmate, ma non aveva importanza. Due intere settimane di austera vita monacale sarebbero state davvero troppe per un pigro e abitudinario cittadino del mondo occidentale.
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