Il kesa (in sanscrito kasaya) è l’abito tipico dei monaci buddisti e, assieme alla ciotola, è il loro emblema.
La leggenda racconta come nacque il disegno di tale abito.
Il Budda, mentre camminava con Ananda – suo cugino e discepolo – notò una risaia suddivisa in terrazze e volle che il suo discepolo realizzasse un abito che riproducesse il disegno di quel campo di riso affinché con questa veste si potessero identificare i seguaci del Budda.
Per confezionare il kesa i monaci utilizzavano tessuti di recupero, anche laceri o consunti, li tingevano e li cucivano insieme dando vita al “più prezioso degli abiti”.
Come lo zazen abbraccia le contraddizioni dell’esistenza per trasformarle in illuminazione, il kesa trasforma qualcosa di consunto, e quindi accantonato, in uno straordinario abito, simbolo di semplicità e di purezza.
Col passare del tempo, il kesa ha mutato la forma e la maniera di essere indossato dai monaci. Nel Sud-Est asiatico i sacerdoti lo indossano a diretto contatto con la pelle mentre, in paesi più freddi come il Tibet o la Cina, lo indossano sopra altri abiti.
Un monaco deve avere in dotazione tre tipi di kesa: quello a cinque bande verticali, quello a sette e quello a nove.
Nello Zen, il kesa a cinque bande (detto gojo-e) col tempo ha mutato forma fino a diventare un piccolo indumento da viaggio (chiamato anche rakusu,), che si porta intorno al collo. Mentre i novizi si vestono di nero, l’abito dei maestri che hanno ricevuto la trasmissione del dharma è color ocra.
(Testo originale di: Dario Doshin Girolami)
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