“Astieniti dal danneggiare gli altri, fai ciò che è bene, purifica la tua mente.” (Buddha Shakyamuni)
Nella religione cristiana si afferma che Dio abbia creato l’uomo a propria immagine e somiglianza e questo nell’intento di ricordare all’uomo stesso, attraverso le sue sembianze divine, che Dio è sempre presente tra noi. Tuttavia, potrebbe venir spontaneo domandarsi se invece non sia possibile l’esatto contrario e cioè che l’uomo, sin dalla sua prima comparsa sulla terra, abbia sentito la necessità di crearsi un Dio onnipotente al quale potersi appellare in tutti i suoi momenti difficili. Se si accetta questa prospettiva, ne consegue allora che questo “Dio personale” non è altro che l’emanazione della natura divina dell’uomo stesso. Il Buddha, 500 anni prima della nascita di Cristo, si prefiggeva appunto di dimostrare, in maniera assolutamente pragmatica, che la mente di ogni uomo possiede veramente questa natura “divina”.
Ogni uomo, sosteneva, è un potenziale Buddha, cioè un risvegliato, un illuminato, ma a causa della sua ignoranza non riesce a realizzarsi in quanto tale. Il Buddhismo quindi non è propriamente una religione in quanto non venera nessun Dio creatore, non è neanche una filosofia perché non vi è una mera speculazione del pensiero, ma il suo approccio è invece squisitamente pratico, esperenziale e non dogmatico. Il Buddhismo potrebbe forse essere definito come una “Scienza della mente” che mira ad eliminare gradualmente dall’uomo ogni forma di emozione disturbante causa di notevole sofferenza.
A fronte di queste considerazioni, non bisogna però confondere il Buddhismo con la moderna psicoanalisi, anche se le due discipline possiedono molte affinità.
Diciamo che là dove la psicoanalisi cessa il suo compito prettamente terapeutico, inizia il campo del Buddhismo. Lo scopo del Buddhismo è quello di “curare” le normali afflizioni dell’esistenza umana che non rientrano più nell’ambito delle patologie psichiche. In questo senso il Buddhismo non può e non deve essere applicato alle suddette patologie, causa un possibile peggioramento delle stesse o quantomeno un inutile risultato.
Il Buddhismo ha come scopo ultimo la cessazione della sofferenza, intesa più specificamente come quella frustrazione, insoddisfazione e senso di inappagamento che ogni uomo sperimenta nel corso della propria esistenza. Questa sofferenza è causata unicamente dal nostro eccessivo attaccamento a cose, fatti e pensieri che per loro natura sono impermanenti e quindi soggetti a decadenza. A sua volta questo attaccamento, che si manifesta sotto forma di brama e desiderio è causato dalla erronea convinzione che esista un Sé completamente indipendente e separato dal tutto. Il Buddhismo insegna che è solo disfandosi del proprio Sé egocentrico che l’uomo ha la possibilità di raggiungere la vera felicità incondizionata. Ed è proprio su questo punto che il Buddhismo si differenzia dalla psicoanalisi. Quest’ultima cerca di curare gli eccessi dell’ego umano riportandolo nell’ambito della normalità, mentre il Buddhismo cerca di andare oltre questa “normalità”, cercando di tendere verso uno stato mentale che trascenda qualsiasi forma di egocentrismo, portando ad ampliare l’Io oltre i propri ristretti confini. Cosa significa in sostanza tutto ciò? Se noi analizziamo la vita di un qualsiasi uomo, possiamo notare che tutta la sua esistenza è permeata da questo ingannevole senso dell’Io che lo porta costantemente a colorare di sé ogni aspetto della realtà, osservando la stessa in maniera soggettiva. Purtroppo però, la realtà è una cosa e ciò che noi desideriamo è un’altra cosa ancora, per cui l’uomo vive costantemente nell’illusione, ad esempio, di non ammalarsi, di non invecchiare, di non perdere l’amore e il denaro, in una parola di essere felice. Certo, è umanamente comprensibile questo atteggiamento e non c’è nulla di sbagliato nell’adoperarsi per la propria felicità. L’errore consiste semmai nell’attaccamento eccessivo, nel nutrire troppe aspettative che la vita poi non sempre mantiene. In questa prospettiva, la vita dell’uomo si rivela alla fine solo un unica illusione paragonabile al sogno. A questo punto però, quando si parla di sofferenza e di cessazione delle passioni, il Buddhismo viene tacciato, a torto, di pessimismo e nichilismo. Accuse queste che però sono infondate ed anzi, in ultima analisi dopo un approfondito studio, questa dottrina si rivela al contrario molto ottimista.
La constatazione che nella vita la sofferenza è la regola e che la felicità è l’eccezione, oltre a essere un dato di fatto sperimentabile da tutti, non significa che non si debba gioire dei piaceri che ogni tanto la vita ci regala. Abbandonare le passioni non significa rinunciare ai piaceri, significa invece che quel determinato piacere non viene più contaminato dall’attaccamento ossessivo al proprio ego che crea dipendenza al piacere stesso. Bisognerebbe in sostanza godere di quel particolare momento piacevole senza desiderare che questo si protragga nel tempo, ma accettando pacificamente che prima o poi finirà. E’ proprio quando il momento piacevole viene colorato di aspettative e desideri che si crea quella sofferenza di cui il Buddhismo vuol sbarazzarsi.
Abbandono dell’ego inoltre, non significa nemmeno rinunciare alla propria personalità esimendoci, da una parte, dalle nostre responsabilità, o dall’altra, subendo passivamente ogni ingiustizia. L’uomo al contrario, ha il diritto ed il dovere per se stesso e per gli altri di fare tutto ciò che è nelle sue facoltà, valutando obbiettivamente la situazione presente e la realtà dei fatti. Obbiettività che invece spesso viene a mancare quando l’uomo si fa prendere da sentimenti come l’odio e l’orgoglio, sentimenti che, nonostante siano umanamente comprensibili, non sono di grande aiuto nella retta visione della realtà. L’accettazione subentra nel momento in cui l’uomo che ha fatto tutto ciò che poteva deve rassegnarsi allo stato delle cose. Quando non si vede altra alternativa alla soluzione del problema, l’atteggiamento più propizio è la tranquilla accettazione dei fatti. L’uomo invece ha la tendenza ,a causa del proprio egocentrismo, a sommare ulteriore sofferenza alla di per se già sofferente situazione.
Un famoso koan (Aneddoto Zen) giapponese chiarisce molto bene questo concetto: Una persona su una prateria viene rincorsa da un leone affamato, ad un certo punto l’uomo cade in un burrone ma riesce ad aggrapparsi ad un ramo che cresceva sul bordo del dirupo. Sfortunatamente però il ramo inizia a rompersi e sotto lo sventurato ci sono altri leoni ad attenderlo, ma in quel momento l’uomo nota una bella fragola rossa li accanto. La coglie e … com’era buona !! Questo aneddoto è naturalmente un paradosso, ma che però ci fa intuire come l’accettazione sia l’unica possibilità che ci sia concessa in determinate situazioni.
Se lo sventurato si fosse fatto prendere dal panico non avrebbe certo migliorato la sua situazione, senza parlare del fatto che non avrebbe nemmeno potuto godere del suo probabile ultimo minuto di vita.
A questo punto si vuol analizzare il metodo col quale il Buddhismo si prefigge di sconfiggere la sofferenza in tutte le sue manifestazioni. L’intuizione del Buddismo a questo riguardo è veramente innovatrice e unica nel suo genere, perché non propone una rimedio esterno , ma utilizza gli stessi “Veleni” dell’ Io (desiderio, odio e ignoranza) come mezzo curativo. Un po’ come si fa con il siero contro il morso dei serpenti dove si utilizza lo stesso veleno per ricavarne la medicina. Nella mitologia si parla dell’alchimista (il Buddha) che trasforma i minerali poveri (i veleni dell’Io) in oro. (la saggezza).
Alchimia a parte, il metodo consiste essenzialmente nella meditazione di consapevolezza ovvero quello stato mentale che ci consente di rimanere intimamente con noi stessi osservando minuziosamente gli stimoli interni ed esterni che transitano continuamente nella nostra mente. Questa continua consapevolezza e la conseguente accettazione di tutto ciò che accade ha come effetto quello di depotenziare i veleni del nostro Io. Man mano ci si rende conto che tutte le sensazioni, le percezioni e i pensieri sono fenomeni transitori e questo a lungo andare genera una sorta di inevitabilità dell’impermanenza che ha un effetto trasformante sul nostro Io.
Il metodo Buddhista ha generato in passato molti uomini realizzati ed ancora oggi nella società contemporanea porta notevoli benefici ai suoi praticanti a tal punto che recentemente la stessa psicanalisi moderna si è avvicinata a queste pratiche meditative con notevole interesse.
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– Fonte: Centro Studi Tibetani “Mandala-Deua Ling”