1 – Là dove questo insegnamento è arrivato, non ha mai imposto nulla, non ha voluto esigere nulla, si è al contrario introdotto con umiltà, forza e mansuetudine nella storia, la cultura, gli usi e costumi che l’accoglievano. Così, lungo i secoli, ventisei secoli oggi, numerose forme si sono sviluppate e affermate; per situare il buddhismo zen si possono elencare le tre grandi famiglie buddhiste: si parla di buddhismo Theravada, la Via ascetica degli anziani, di buddhismo Mahayana, la Via di mezzo di cui lo zen è una forma, e di buddhismo Vajrayana (spesso ridotto alla definizione di buddhismo tibetano), la Via di diamante, denominazione che simboleggia la forza e la luce di una pratica più esoterica nella forma. Diverse forme, un solo Buddha e un solo insegnamento, mostrano che il cuore di questa esperienza fondamentale e originale è accessibile a ogni essere vivente senza prerequisiti.
Ma di quale insegnamento si parla? Cosa insegnava il Buddha Sakyamuni? Il suo insegnamento non era altro che la sua presenza. Nessuno dei suoi discepoli veniva a lui per ricevere una dottrina infallibile. Esprimendosi, il Buddha non ingaggiava lunghe tenzoni filosofiche ma coglieva la vita in tutti i suoi aspetti, risvegliato e infinitamente saggio. Ciò che si veniva a gustare, a percepire, era la sua Presenza. Poi Sakyamuni è morto. Da questa assenza è nata una lunga trasmissione, così che il desiderio fervente di perpetuare il suo insegnamento si materializzò nei Sutra, nati dai ricordi della sua Parola, trasmessi fino ai nostri giorni, e la cui intera essenza è la base meditativa, cuore di tutto l’insegnamento, non di un insegnamento convenzionale, ma piuttosto dell’insegnamento attraverso il ritorno all’esperienza stessa del Buddha storico. Questo ritorno all’esperienza non è un ricordo, né l’imitazione di una tecnica, né l’osservanza di una regola religiosa. Questo ritorno all’esperienza originale del Buddha acquista il suo senso e si materializza in tutto ciò che, nella nostra vita, è esperienza pienamente vissuta.
Il cuore di ciò che è stato trasmesso dal Buddha Sakyamuni si basa in primo luogo sulla presa di coscienza che, tutti quanti noi, malgrado le nostre diversità, condividiamo da una parte l’esperienza che questa vita è “dukka” (sofferenza, insoddisfazione o incompletezza); e dall’altra, che tutti noi desideriamo affrancarci da questa sofferenza. E da buon pedagogo ci ha trasmesso prima di tutto la comprensione delle cause della sofferenza, poi le chiavi per liberarcene e raggiungere la pienezza della nostra esistenza.
Il buddhismo zen radica tutto il suo insegnamento e la sua pratica sulla comprensione profonda di questo. E il cuore di questa pratica è la sperimentazione della Presenza attraverso l’esperienza.
Allora, quando si legge, si ascolta, si cerca, si trovano un mucchio di definizioni dello zen; alcune infelici come quelle di cui si è appropriato il marketing moderno, ovvero una sorta di beatitudine immediata, di ritorno sull’investimento dello spirito, di tecniche e strumenti per “diventare zen” o “restare zen”, degli stati talvolta illustrati da una sciocca e vuota iconografia di serenità clinica, di atmosfere perfette o di stati estatici, che fa affondare di nuovo rapidamente l’individuo nella frustrazione e nella sofferenza. Sovente si traduce zen con meditazione. Cosa poco soddisfacente. Se nella sua traduzione letterale si potrebbe dire “meditazione silenziosa”, approfondendo l’origine sanscrita del termine matrice, si arriverebbe agevolmente a tradurre zen con “raccoglimento perfetto”. È in questo senso che amo tradurre la parola zen, e definire la nostra pratica con la parola “presenza”. [ … ]
(Da: Il Buddhismo zen – La Via di mezzo – Una corrente del Mahayana – Evangile et liberté in italiano del 27-02-12. Federico Djong Do Procopio, traduzione Giacomo Tessaro)