Il Discorso sul non Sé viene considerato la prima formulazione del Buddha sull’argomento della non esistenza del Sé. L’occasione del discorso è l’incontro con cinque monaci. Gli eventi seguono un modello comune a incontri del genere; il Buddha illustra ai monaci la logica alla base di alcuni aspetti del suo insegnamento, e loro ne restano immediatamente convinti. Anzi, in questo caso sono subito illuminati. Alla fine del discorso non sono neanche più dei monaci ma degli arhat, esseri realmente illuminati. Questi monaci sono considerati i primi cinque individui che sono arrivati a un tale livello dopo il Buddha stesso.
Il fatto che questo risultato storico venisse raggiunto grazie alla comprensione del non Sé dimostra l’importanza di questa dottrina nel pensiero buddhista. E il fatto che a esserne responsabile fosse stato questo particolare discorso sul non Sé gli attribuisce un ruolo speciale nel canone buddhista. Come molte dottrine in diverse filosofie e religioni antiche, il non Sé è soggetto a interpretazioni differenti, e quando si discute del suo significato autentico ci si può basare su questo o quel testo buddhista. Ma questo testo particolare è fondamentale.
La strategia del Buddha in questo discorso consiste nello scardinare i punti fermi dei monaci, coincidenti con le idee tradizionali sul sé, chiedendo loro dove si troverebbe nell’essere umano la componente definibile come sé. Egli porta avanti questa ricerca in maniera sistematica, prendendo in esame quei cinque «aggregati» che, secondo la filosofia buddhista, danno sostanza all’essere umano e alla sua esperienza. Descrivere con precisione questi aggregati richiederebbe un capitolo intero, ma per quello che ci interessa ora possiamo definirli come:
- corpo fisico (chiamato «forma» in questo discorso), che comprende gli organi di senso come occhi e orecchie;
- sensazioni fondamentali;
- percezioni (di immagini o suoni identificabili);
- «formazioni mentali» (una categoria vasta che include emozioni complesse, pensieri, inclinazioni, abitudini, decisioni);
- «coscienza» o consapevolezza, in particolare consapevolezza del contenuto degli altri quattro aggregati.
Il Buddha passa in rassegna questa lista chiedendosi quale aggregato (o quali) si possano considerare come sé. In altre parole, quali aggregati possiedono quelle qualità che ritenete pertinenti al sé?
Questo a sua volta solleva altre domande: quali qualità vi aspettate che possieda il sé? E soprattutto, cosa significava la parola sé per il Buddha? Purtroppo, egli non dedicò molto tempo a definire i termini che usava. Ma se prestate attenzione agli argomenti da lui usati contro il sé, potete capire cosa intendesse con sé, e quali proprietà gli attribuisse.
Tanto per cominciare, il Buddha collega l’idea di sé all’idea di controllo. Sentite cosa dice a proposito dell’aggregato della «forma»,
il corpo fisico: «Se la forma fosse il sé, non sarebbe soggetta alle malattie e si potrebbe affermare a proposito del corpo: ‘Che la mia forma fisica sia/non sia così’». Ma, osserva, i nostri corpi sono soggetti alle malattie e noi non possiamo cambiare magicamente la situazione dicendo: «Che la mia forma fisica sia così». Quindi la forma – la materia di cui è costituito il corpo umano – non si piega al nostro controllo. Pertanto, dice il Buddha, la forma «è non Sé». Noi non siamo i nostri corpi.
Passa poi in rassegna gli altri quattro aggregati, uno dopo l’altro.
«Se la sensazione fosse il sé, la sensazione non sarebbe soggetta alle malattie e si potrebbe dire a proposito della sensazione: ‘Che la mia sensazione sia/non sia così’». Ma naturalmente, di solito non abbiamo questo tipo di controllo sulle nostre sensazioni e per questo esse tendono a radicarsi anche quando preferiremmo che se ne andassero. «La sensazione è non Sé», conclude il Buddha. Lo stesso vale per percezione, formazioni mentali, coscienza. Qualcuno di questi aspetti dell’individuo ricade sotto il suo controllo, o almeno sotto un controllo tale da consentirgli di evitare la sofferenza? E se non sono sotto il suo controllo, come possiamo considerarli parte del sé?
A questo punto alcuni lettori potrebbero rimanere perplessi e chiedersi: «Il Buddha sta dicendo che il sé è qualcosa che dovrebbe mantenersi sotto controllo? Personalmente sarei più propenso a credere che esso sia quella parte di me che esercita il controllo, una sorta di CEO del mio essere» [il CEO è la persona al vertice di comando di un’azienda]. O forse non siete tra questi, e non capite come a qualcuno possa venire in mente una domanda del genere. Un problema dei discorsi sul sé è che persone diverse hanno intuizioni diverse su ciò che significa sé. Ma se questa domanda vi assilla, eccovi una possibile risposta.
Questa idea del sé come CEO appare più chiaramente in altri testi buddhisti, dove l’esistenza di un sé di questo tipo è negata. Si potrebbe anche affermare che in questo discorso il Buddha nega l’esistenza di un sé di questo tipo in maniera implicita.
Il controllo non è l’unica proprietà che si tende ad associare al sé, né l’unica proprietà che il Buddha esamina nel discorso. Quando penso al mio sé, penso a qualcosa che dura nel tempo. Sono cambiato molto da quando avevo dieci anni, ma un’essenza interiore – la mia identità, il mio sé – non è rimasta? Non è una costante in mezzo a tutto il resto che, invece, cambia?
Il Buddha sarebbe scettico di fronte a questa affermazione, visto che secondo lui tutto scorre e nulla è permanente. Nel suo Discorso sul Non Sé applica questo scetticismo a ciascuno dei cinque aggregati.
«Cosa ne dite, monaci? La sensazione è permanente o transitoria?» E i monaci, obbedienti, rispondono: «La sensazione è transitoria».
Lui continua: «La percezione è permanente o transitoria?» E così via per formazioni mentali, corpo, coscienza: nessuno degli aggregati è permanente, dichiarano i monaci.
Due delle proprietà comunemente associate con il sé – il controllo e la durata nel tempo – sono ritenute assenti nelle cinque componenti che sembrano costituire gli esseri umani. Questo è il nodo centrale della tesi sostenuta dal Buddha nel primo e più famoso discorso sul non Sé, ed è generalmente interpretato come principio buddhista secondo il quale il sé non esiste.