Se accettate l’idea [teorizzata dalla psicologia evolutiva] che molti dei nostri sentimenti più fastidiosi siano, in un modo o nell’altro, delle illusioni, allora la meditazione può essere vista, tra le altre cose, come un processo che permette di dissiparle.
Ecco un esempio.
Nel 2003, un paio di mesi dopo il mio primo ritiro di meditazione, mi recai a Camden, nel Maine, per parlare a una conferenza annuale chiamata Poptech. La notte prima del mio intervento mi svegliai alle due o alle tre del mattino per colpa di uno dei miei attacchi di ansia.
Dopo qualche minuto trascorso a pensare alle gravi conseguenze dello stare sveglio, decisi di sedermi sul letto a meditare. Mi concentrai sulla respirazione per un po’, ma anche sull’ansia stessa: sulla sensazione di tensione nella pancia. Cercai di considerarla, come mi era stato insegnato al ritiro di meditazione, senza esprimere giudizi.
Non era necessariamente qualcosa di negativo, e non c’era motivo di prendere le distanze da essa. Era solo una sensazione, quindi cercai di sentirla, di osservarla. Non posso affermare che fosse una sensazione piacevole, ma più l’accettavo, studiandola senza esprimere giudizi, meno era fastidiosa.
Poi accadde qualcosa che assomigliava al grande passo avanti che avevo sperimentato dopo avere bevuto caffè al ritiro. L’ansia adesso mi sembrava separata da me, qualcosa che osservavo con la mente, proprio come potrei osservare una scultura astratta in un museo.
Sembrava una sorta di corda spessa e nodosa, che aveva rimpiazzato l’ansia tramutandosi in tensione. L’ansia, dolorosa fino a pochi minuti prima, ora non era più né buona né cattiva, e dopo essere giunta a quello stato neutro si dissolse completamente.
Qualche minuto dopo quel piacevole sollievo dalla sofferenza, mi sdraiai e mi addormentai. Il giorno dopo la mia relazione andò – piccola pausa per creare un po’ di suspense – benissimo.
È possibile, in teoria, attaccare l’ansia da un altro punto di vista.
Invece di concentrarvi sulla sensazione stessa, come ho fatto quella notte, potete studiare i pensieri associati a essa. È così che funziona la terapia cognitivo-comportamentale: il terapista vi fa domande come «Vi sono molte probabilità che facciate una presentazione catastrofica, considerando i precedenti?» e «Se proprio faceste una figuraccia, la vostra carriera andrebbe a rotoli?» A quel punto, se capiste che le vostre paure non hanno fondamento logico, anche i sentimenti che le accompagnano probabilmente si indebolirebbero.
La terapia cognitivo-comportamentale è affine alla meditazione di consapevolezza. Entrambe in un certo senso mettono in dubbio la validità dei sentimenti. Solo che con la terapia cognitivo comportamentale la loro messa in dubbio è più letterale. Ma vi avviso subito: se state pensando di combinare questi due approcci e di diventare famosi fondando una nuova scuola basata su una terapia rivoluzionaria, devo darvi una brutta notizia. La terapia cognitivo-comportamentale basata sulla mindfulness esiste già.