La mente è capace di astrazione, può generare ogni sorta di idee e di immagini, pensare cose sublimi o estremamente volgari. C’è tutta una gamma di possibilità, dagli stati mentali più sottili di beatitudine e di estasi alle miserie del dolore più crudo: dal paradiso all’inferno, per usare termini più coloriti. Ma non c’è un paradiso permanente o un inferno permanente, né d’altronde alcuno stato permanente che possa essere percepito o immaginato. Nella meditazione, quando si comincia a prendere coscienza dei limiti, dell’insoddisfazione e del cambiamento connaturati a ogni esperienza sensoriale, si comincia anche a percepire che tutto questo non sono io e non è mio, ma anattā, non-io.
Quindi, prendendone coscienza, cominciamo ad affrancarci dall’identificazione con le condizioni sensoriali. E questo avviene non sull’onda dell’avversione, ma comprendendole per quelle che sono. È una verità che va realizzata, non un credo. Anattā non è un credo buddhista, è un’esperienza concreta. Ma se non dedicate del tempo al tentativo di investigarla e di comprenderla, è probabile che tutta la vostra vita andrà spesa nella convinzione di essere questo corpo. Anche se di quando in quando potrà capitarvi di pensare “non sono il corpo” – magari ispirati da una poesia o da un nuovo approccio filosofico. Potrà sembrarvi una buona idea, questa di non essere il corpo, ma non lo avrete sperimentato. Qualche intellettuale potrà affermare che non siamo il nostro corpo, che il corpo non è il sé; facile a dirsi, ma saperlo è tutt’altra cosa. Grazie alla pratica della meditazione, attraverso l’investigazione e la comprensione della realtà delle cose, cominciamo ad affrancarci dall’attaccamento. Quando aspettative e pretese vengono meno, è naturale non provare più la disperazione, la tristezza e il dolore che ne conseguono quando non si ottiene ciò che si desidera. Quindi la meta è questa, il nibbana (nirvana), la condizione in cui non ci si aggrappa a nessun fenomeno che abbia un principio e una fine. Quando lasciamo andare questo insidioso e abituale attaccamento a ciò che nasce e muore, cominciamo a realizzare l’Immortale.
[ Ajahn Sumedho ]
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