Una delle istruzioni contenute nel Satipatthana Sutta è quella di conoscere le condizioni che prevengono il sorgere dell’avversione. La più efficace fra queste è coltivare la benevolenza, mettā in pali. È quella generosità di cuore che semplicemente desidera il bene e la felicità di tutti gli esseri. La mettā contribuisce a prevenire l’avversione perché si concentra sui lati buoni degli altri, invece che sui loro difetti.
A volte si crede che essere troppo benevoli, vedere sempre il lato positivo degli altri, renda un po’ stupidi, incapaci di riconoscere la verità di fatto o di prendere i provvedimenti opportuni. Invece, è proprio la mente non offuscata dalla rabbia o dall’odio che inquadra meglio le situazioni, e suggerisce il giusto corso da prendere anche in circostanze molto critiche.
È importante capire che l’avversione non svanisce completamente al primo impulso affettuoso. Il bodhisattva passò anni e intere vite a coltivare e purificare questa qualità. Ma via via che la esercitiamo, la riconosciamo e ci diventa più familiare, la mettā inizia a presentarsi sempre più spontaneamente nella nostra vita. Diventa un modo di essere, più che una cosa da fare. Quando la benevolenza cresce verso noi stessi e verso gli altri, siamo più inclini alla tolleranza e meno al giudizio; lentamente, gradualmente, iniziamo a vivere in un campo sempre più esteso di benevolenza e buona volontà. A questo punto la mettā, oltre che fungere da solvente dell’avversione, fa anche da base alla saggezza. Più siamo affettuosi e pazienti con le difficoltà e i fastidi, meno ci perdiamo nella reattività. Le nostre scelte e azioni diventano più sagge, il che a sua volta accresce la felicità, la mettā e la libertà.
[ Da: Joseph Goldstein, “Mindfulness. Una guida pratica al risveglio“ ]
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