Suzuki Roshi ha detto che: “La rinuncia non consiste nel lasciare le cose di questo mondo, ma nell’accettare che se ne vadano”. Tutto è impermanente, prima o poi se ne va. La rinuncia è la condizione di non attaccamento, l’accettazione del fatto che le cose se ne vanno. L’impermanenza è, di fatto, un altro nome per ‘perfezione’. Le foglie cadono, si accumulano i prodotti della decomposizione, da questi rinascono i fiori e le foglie: cose che sentiamo come piacevoli. La distruzione è necessaria. Un incendio nel bosco può essere necessario, e a volte il nostro intervento può rivelarsi controproducente. Senza distruzione non può prodursi la nuova vita, non può manifestarsi la sua meraviglia: il continuo mutamento. Dobbiamo vivere e morire. Questo processo è perfezione.
Il cambiamento non è precisamente quello che ci saremmo aspettati. Non apprezziamo la perfezione dell’universo perché il nostro impulso ci spinge a cercare un modo per durare per sempre nel nostro eterno fulgore. Benché ridicola, la nostra speranza è questa. La resistenza al cambiamento stride con la perfezione della vita, cioè la sua impermanenza. Se la vita non fosse impermanente, dove sarebbe la sua meraviglia? Ma l’ultima cosa che vogliamo è la nostra impermanenza. Chi non ha avuto un sussulto al primo capello bianco? Nell’esistenza umana infuria un conflitto. Rifiutiamo di vedere la verità, rifiutiamo di vedere la vita. La nostra attenzione è altrove: sul campo di battaglia delle nostre paure, tanto su di noi che sulla nostra vita. Per vedere la vita dobbiamo prestarle attenzione. Ma ci interessa poco, sfamo impegnati nella lotta per conservarci in eterno. Battaglia futile e angosciosa, che ovviamente non vinceremo. Vince sempre la morte, il ‘braccio destro’ dell’impermanenza.
[ Da: Charlotte Joko Beck, “Zen quotidiano“ ]
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– https://en.wikipedia.org/wiki/Joko_Beck