La maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace. Ma ben presto ci accorgiamo che quello con cui entriamo in contatto è il caos della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza. La meditazione buddhista di visione profonda è un percorso che porta a guardare in profondità fino a vedere in trasparenza la condizione umana, non solo la propria, ma quella che attraverso le miriadi di differenze ci accomuna.
All’inizio, è necessario costruire un nido dentro di noi, traslocare dalla mente discorsiva che costantemente ci descrive i fenomeni e ci racconta tutto quello che siamo stati, che siamo e che saremo, a un nido di silenzio che sta in pieno corpo, è il cuore. Questo trasloco dà una forte sensazione di serenità, di quiete, di essere approdati in un paese senza guerra, e di voler chiedere asilo. Ma è un guaio pensare che quella serenità, quella quiete, siano permanenti ed equivalgano alla pace.
All’inizio del percorso, veniamo invitati a lasciar scorrere i pensieri come nuvole in un cielo ampio, a non credere ai pensieri, e a far ritorno alla consapevolezza, puntuale, precisa, delicata, del respiro. Impariamo a conoscere un amico che nasce con noi e con noi muore, il compagno discreto di tutta una vita che non consideriamo quasi mai. Il respiro è un sensore e imparare a entrare in relazione con lui, fino a una vera intimità, ci permette di conoscere il nostro mondo interno e quello esterno in modo assolutamente diverso dalla conoscenza mentale e anche da quella emotiva che ne avevamo prima.
Entrare in contatto con il respiro significa diventare saldamente delicati. Non catturare il respiro, non fargli la posta, ma avanzare con rispetto e avvicinarlo con cura, come faremmo con un essere selvatico rimasto a lungo solo. Deve abituarsi a noi e noi abituarci ad avvicinarlo non per modificarlo ma per conoscerlo. Si tratta di sentire il respiro che mi attraversa in questo momento e cosi, in pieno corpo, sapere di essere viva. Si tratta di rinascere e imparare tutto da capo. Partire dal fatto che qui c’è un corpo. Quindi percepirlo, sentirlo, abitarlo, senza pensare di esserlo, senza identificazione e insieme senza scissione. Non sono il corpo, ma qualcosa in me lo conosce, lo sente, lo percepisce senza pensare: “Mio!” Si entra in intimità, l’intimità è impossibile se sono l’altro, ma se l’altro è assolutamente altro da me è di nuovo impossibile. Si potrebbe dire quindi che la consapevolezza è una forma di amore.
La parola pali da cui proviene è sati, che è ricordare, riportare al cuore. La parola “consapevolezza” è una bella traduzione, perché ha a che fare con il sapere-con, sapere insieme. La consapevolezza non ha un proprietario, è una facoltà umana condivisa, non basta sapere, è necessario sapere di sapere, con-sapere, ed essere consapevoli ci accomuna, la consapevolezza è di tutti e di nessuno. Se davvero sono consapevole, non c’è più io, c’è solo puro conoscere senza proprietario.
[ Da: Chandra Livia Candiani, “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione“ ]
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– https://it.wikipedia.org/wiki/Chandra_Livia_Candiani