Quando si afferma che il liberalismo è l’ideologia dominante del nostro tempo, vi sono sempre dei sapientoni che protestano adducendo ad esempio l’importo della spesa pubblica o il livello dei prelievi obbligatori nel nostro Paese. Ma in questo modo si fa di una mosca un elefante.
Una società liberale non è esattamente la stessa cosa di un’economia liberale. È invece una società in cui dominano la preminenza dell’individuo, l’ideologia del progresso, l’ideologia dei diritti dell’uomo, l’ossessione della crescita, lo spazio sproporzionato del valore mercantile, l’assoggettamento dell’immaginario simbolico all’assiomatica dell’interesse e così via.
Principale erede della filosofia dei Lumi, che afferma la supremazia della ragione e la pone come principio universale cui tutti gli uomini hanno naturalmente accesso, il liberalismo ha assunto una portata mondiale da quando «la globalizzazione ha istituito il capitale in quanto soggetto storico reale della modernità capitalistica e il valore come norma universale di regolazione delle prassi sociali». Esso è all’origine della mondializzazione, la quale non è altro che la trasformazione del Pianeta in un immenso mercato, e ispira quello che oggi si chiama “pensiero unico”.
Beninteso, come ogni ideologia dominante, è anche l’ideologia della classe dominante. Il problema, quando si parla del liberalismo, è che si è subito intrappolati dalle parole.
Se “liberale” è sinonimo di persona dalla mente aperta, tollerante, sostenitrice del libero esame e della libertà di opinione, o ancora ostile alla burocrazia e all’assistenzialismo come allo statalismo centralizzatore e invasore, l’autore di queste righe non avrà evidentemente alcuna difficoltà a fare proprio questo termine. Lo storico delle idee, però, sa bene che tali accezioni sono triviali. Il liberalismo è una dottrina filosofica, economica e politica, ed è evidentemente in quanto tale che deve essere studiato e giudicato.
Il vecchio spartiacque destra-sinistra è a questo riguardo di scarsa utilità. Come ha ricordato Jean-Claude Michéa, i liberali hanno «costituito, durante l’intera prima parte del XIX secolo, l’ala mercantile della sinistra originaria». Soltanto in seguito il liberalismo è scivolato verso destra – insieme, d’altronde, con l’ideologia del progresso – almeno nell’Europa continentale, dato che negli Stati Uniti i liberals sono ancora oggi considerati dei leftists. Mentre in Europa i “liberali” – che possono essere benissimo uomini “di destra” o “nazional-liberali” – si definiscono anzitutto come sostenitori dell’economia di mercato e del libero scambio, negli Stati Uniti il “liberalismo” ha infatti un senso esclusiva-mente politico e si riferisce solo alla dottrina della libertà individuale, del governo limitato e del contratto. I “liberali” possono allora essere considerati come gli avversari di sinistra dei conservatori, il che generalmente non accade nei Paesi europei.
È peraltro evidente che in seno al liberalismo esiste un gran numero di autori e di correnti differenti: liberalismo “classico” e liberalismo “moderno”, liberalismo continentale europeo e liberalismo anglosassone, liberalismo “evoluzionista” e liberalismo “razionalista” ecc. Come si è potuto distinguere, se non addirittura opporre, liberalismo politico e liberalismo economico, così alcuni hanno identificato due grandi correnti principali, la prima che va da Burke a Hayek e la seconda da Locke ai libertari americani.
Altri preferiscono distinguere tra coloro che vedono nel liberalismo la realizzazione di principi universali e coloro che vi vedono un modo di coesistenza pacifica, coloro che sono ostili alla regolazione statale in nome dell’efficienza economica e coloro che le sono ostili in nome della libertà. Altri ancora, sensibili soprattutto a certe evoluzioni attuali, oppongono “neoliberalismo” e liberalismo classico.
Non entreremo qui in questo copioso dibattito, che è certo appassionante, ma non costituisce l’oggetto del presente libro. I testi qui riuniti non si prefiggono nemmeno di discutere della fondatezza di questo o quel punto dell’argomentazione economica liberale, o di valutare i meriti comparati del libero scambio e del protezionismo, l’interesse della fiat tax o la necessità di diminuire l’ampiezza della spesa pubblica.
Sono ancora meno una rimessa in discussione di autori di primo piano come Tocqueville o Raymond Aron, che l’etichetta di “liberale” non basta d’altronde a definire. Costituiscono piuttosto un lavoro di filosofia politica che si sforza di andare all’essenziale, al cuore dell’ideologia liberale, a partire da un’analisi critica dei suoi fondamenti, ossia di un’antropologia fondata essenzialmente sull’individualismo e sull’economicismo.
Come il teologo John Milbank, pensiamo infatti che il liberalismo sia anzitutto un “errore antropologico”; perciò parliamo di liberalismo (e non di “ultraliberalismo”, formula equivoca che fa pensare che il liberalismo sarebbe accettabile, qualora non cadesse in certe esagerazioni) per designare questa ideologia e per parlare del suo naturale correlato: il capitalismo.
La cultura del narcisismo, la deregolamentazione economica, la religione dei diritti dell’uomo, il crollo del collettivo, la teoria del genere, l’apologia degli ibridi di ogni natura, l’emergere dell'”arte contemporanea”, il reality show, l’utilitarismo, la logica del mercato, il primato del giusto sul bene (e del diritto sul dovere), la “libera scelta” soggettiva elevata al rango di regola generale, il gusto della paccottiglia, il regno dell’usa e getta e dell’effimero programmato, tutto questo fa parte di un sistema contemporaneo in cui, sotto l’influenza del liberalismo, l’individuo è divenuto il centro di tutto ed è stato eretto a criterio di valutazione universale. Comprendere la logica liberale vuol dire comprendere ciò che unisce tutti questi elementi fra loro e li fa derivare da una matrice comune.
Il liberalismo, da solo, non riassume la modernità, ma ne è il più illustre rappresentante («La forma più coerente del progetto moderno», dice Michea, «ma non la sua forma esclusiva»). La modernità è stata spesso descritta come l’epoca in cui il modo di vita eteronomo fa spazio al modo di vita autonomo, ossia come il momento in cui si passa da una società in cui i comportamenti erano regolati dal super-ego delle credenze o delle tradizioni a una società in cui l’uomo si concepisce come potenza libera di crearsi esclusivamente a partire da se stesso.
Questa concezione contiene una parte evidente di verità, ma trova anche rapidamente i suoi limiti, perché la modernità ha posto fine a certe dipendenze e a determinati vincoli solo per sostituirli con nuove forme di alienazione: sfruttamento del lavoro vivo, assoggettamento alla legge del valore, trasformazione del soggetto in oggetto, solitudine di massa, assurdità del lavoro forzato, crollo della vita interiore, inautenticità dell’esistenza, condizionamento pubblicitario, tirannia della moda, scomparsa dell’intimità, giudiziarizzazione generalizzata, menzogna mediatica, controllo sociale, regno del politicamente corretto ecc.
Si comprende meglio la modernità vedendovi il momento in cui non viene più prima la società, ma è l’individuo a precedere il tutto sociale, il quale, di conseguenza, non è altro che un semplice aggregato di volontà individuali. Considerato come un essere fondamentalmente indipendente dai suoi simili, l’uomo è parallelamente ridefinito come un agente che cerca costantemente di massimizzare il suo interesse, adottando così il comportamento del commerciante al mercato (Homo oeconomicus).
Questa svolta senza precedenti è appunto tipica del liberalismo. «La storia europea moderna, nel suo asse fondamentale, può riassumersi in questa formula: la concretizzazione dell’individuo astratto», osserva Marcel Gaucheh. In questo senso, non è esagerato parlare di rivoluzione individualista, una rivoluzione che bisogna evidentemente apprezzare nella lunga durata, perché ha non solo colpito la società, ma anche trasformato le personalità, i costumi e le mentalità.
L’individualismo legittima i comportamenti egoistici, ma sarebbe un grave errore farne un semplice sinonimo dell’egoismo, o ridurlo all’egocentrismo, all’ampollosità narcisistica degli ego. C’è un individualismo anarchico e persino un individualismo aristocratico, ma nel senso pieno del termine l’individualismo di cui si è parlato qui è legato anzitutto all’ascesa delle classi e dei valori borghesi. L’individuo, inoltre, non è la persona, e l’individualismo non corrisponde nemmeno a un migliore riconoscimento di quest’ultima.
Marcel Gauchet ha mostrato bene la differenza tra l’individuazione biopsichica e l’individualizzazione sociale. Le società antiche, in cui la legittimità riposava sulle credenze, i costumi condivisi o le tradizioni ancestrali, erano società senza individualizzazione sociale, la qual cosa non impediva affatto che le personalità individuali potessero affermarsi in maniera eminente. «Le società senza individualismo implicano una fortissima individuazione», scrive Gauchet, «mentre l’individualismo, così come lo conosciamo, rende molto problematica l’individuazione».
In quanto componente strutturale della modernità, l’individualizzazione sociale è indissociabile dall’ascesa del discorso dei diritti, nella misura in cui, per il liberalismo, l’uomo lo si definisce anzitutto come un portatore di diritti – un diritto che conosce a sua volta solo individui ugualmente liberi.
Il liberalismo si fonda sulla convinzione che esistano diritti individuali fondamentali e inalienabili, i quali sono allo stesso tempo anteriori e superiori a ogni istituzione umana, e che il primo di essi sia quello di perseguire liberamente il proprio interesse. Questi diritti sono evidentemente puramente formali (il diritto al lavoro non ha mai procurato un posto di lavoro), ma non è questo il punto importante: il diritto fondamentale è il diritto di avere diritti. La società di individui è al contempo una società i cui individui costituiscono in ultima istanza la sola e ultima componente (l’atomo sociale indiviso) e una società in cui la legittimità si basa esclusivamente sul diritto: «La società prodotta dagli individui è la società che si incarica di produrre gli individui che la compongono, dando loro i mezzi per comportarsi da individui».
Dire che l’uomo possiede diritti in quanto uomo, vuol dire in effetti che essere uomo è detenere diritti: una società di individui è una società in cui l’individuo portatore di diritti è l’unica fonte di legittimità, perché è considerato veramente umano solo l’individuo separato titolare di diritti. Per questo, in una tale società, le modalità di affermazione comunitaria, anche quando non hanno niente di convulsivo, sono così facilmente percepite come patologiche.
Ecco anche perché ciò che può ancora restare di una struttura collettiva non contrattuale, a cominciare dalla famiglia, è costantemente delegittimato. Per i liberali, la sovranità degli individui si basa anzitutto sulla proprietà che hanno di se stessi: è in quanto si possiedono che hanno il diritto di non essere “posseduti” da nessun altro, ossia di non essere per principio dipendenti da nessuno. E il principio stesso della teoria dell’individualismo possessivo che definisce l’essere umano come proprietario di se stesso.
In un libro ormai classico, Crawford Brough Macpherson mostra bene che il diritto di proprietà nella dottrina liberale altro non è che l’espressione secondaria di questa proprietà di sé, in base alla quale l’uomo possiede la qualità di uomo soltanto se è indipendente dalla volontà altrui e non deve niente alla società per quanto concerne la sua persona, le sue facoltà o le sue scelte. Questa teoria sostiene l’idea che l’uomo è anzitutto quello che ha liberamente scelto di essere, che è interamente padrone delle sue scelte e che si costruisce da sé, a partire non da qualcosa che già c’è, ma a partire dal niente.
Le conseguenze sono considerevoli. Poiché le uniche azioni legittime sono quelle che si fondano sulla volontà degli individui, ogni contratto si fonda su un calcolo implicito o esplicito del rispettivo interesse dei contraenti; di conseguenza, i diritti individuali possono essere opposti a ogni obbligazione sociale o a ogni imperativo politico. «Un individuo che si definisce puramente attraverso i diritti che detiene originariamente, per il solo fatto di esistere», constata ancora Marcel Gauchet, «è un individuo che non deve niente alla società, nei confronti della quale è libero. Beninteso, egli ha la capacità di influire sulle sue decisioni e, se lo desidera, può partecipare alla vita collettiva e svolgervi un ruolo. Ma niente l’obbliga a farlo».
In nome delle prerogative individuali, il diritto può degenerare nel rifiuto di ogni potere e di ogni limite. «Così», scrive Pierre Manent, «in nome del principio dei diritti umani, si vuole proibire alle nazioni di approvare le leggi che giudicherebbero eventualmente utili o necessarie per preservare o incoraggiare la vita e l’educazione comune, che danno a ciascuna la sua fisionomia e la sua ragion d’essere». Essendo proprietario di se stesso, ciascun individuo deve essere lasciato pienamente libero nelle sue preferenze e nelle sue scelte fintantoché non ostacoli la possibilità per gli altri di fare altrettanto.
La concezione liberale del diritto individuale è riassumibile in questa formula: finché non pretendo di impedire agli altri di fare altrettanto, ho il diritto di fare di me stesso tutto ciò che mi va (drogarmi, vendere i miei organi, affittare il mio utero, lavorare la domenica, diseredare totalmente i miei figli ecc.).
Non ho, per principio, alcuna regola collettiva da rispettare, e nessun potere pubblico può ordinarmi di sacrificare la mia vita per una causa qualsiasi. Il diritto di proprietà di sé non tiene dunque alcun conto dell’uso lodevole o degradante che intendiamo fare di noi stessi.
Ugualmente, a stretto rigore di termini liberali, niente permette di raggiungere il limite massimo nel finanziamento delle campagne elettorali da parte delle imprese private o delle lobbies industriali, di opporsi al traffico di droga, o addirittura, come fa ironicamente notare Michael J. Sandel, di sollevare obiezioni al cannibalismo tra adulti consenzienti.
Il concetto di società politica cede così il passo davanti a quello di “società civile”, il che è perfettamente logico perché la società civile non è altro che una somma di interessi privati e non una comunità politica, cui i cittadini devono prestare obbedienza per godere di ciò che è comune.
Il risultato è quello constatato da Pierre Manent: il regno assoluto dei diritti individuali fa automaticamente perire l’idea di bene comune. Si chiarisce nello stesso tempo la concezione liberale della libertà. Il liberalismo, beninteso, non è sinonimo di libertà più di quanto l’ugualitarismo sia sinonimo di uguaglianza, il comunismo sinonimo di bene comune o l’umanesimo di umanità.
Il liberalismo non è l’ideologia della libertà, ma l’ideologia che mette la libertà al servizio del solo individuo. L’unica libertà che il liberalismo proclama è la libertà individuale, concepita come affrancamento nei confronti di tutto ciò che eccede l’individuo.
[ Critica del Liberalismo – La società non è un mercato- Alain De Benoist (macrolibrarsi) ]