Il primo discorso del Buddha convinse i cinque asceti che egli aveva raggiunto la consapevolezza di qualcosa di molto importante. Così essi rimasero con lui, ascoltarono i suoi insegnamenti, e pervennero anch’essi al risveglio.
Anch’essi compresero il dolore, abbandonarono il desiderio, ne realizzarono l’estinzione e intrapresero la coltivazione della via. Anch’essi raggiunsero la libertà del cuore e della mente dalla coazione del desiderio. Le parole con cui si descrive il loro risveglio sono le stesse con cui si rappresenta quello del Buddha. Da allora, alla conclusione dei discorsi del Buddha, spesso si riferì non soltanto di come molti fossero pervenuti al risveglio tramite tale specifico insegnamento, ma anche in quale misura lo avessero raggiunto.
I primi resoconti di tali avvenimenti suggeriscono che il risveglio era un evento comune fra coloro che ascoltavano il Buddha ed agivano in conformità alle sue parole. Si riconosceva una differenza di grado fra coloro che avevano provato il momento iniziale del risveglio e avevano quindi intrapreso la Via, e coloro che avevano ulteriormente coltivato la Via e raggiunto addirittura il punto in cui l’habitus stesso del desiderio era estinto. Ma accedere al processo del risveglio era, in sé, relativamente semplice e non richiedeva un grande sforzo.
Tuttavia, mano a mano che il buddhismo si istituzionalizzò in religione, il risveglio si fece via via più inaccessibile. Coloro che detenevano il controllo delle istituzioni asserivano che si trattava di un’esperienza tanto sublime da poter essere raggiunta, in linea di massima, soltanto con la purezza di cuore e il distacco conseguiti mediante la disciplina monastica, e perfino in tal caso, essi dichiaravano, era rara. Per spiegare questa situazione, facevano appello all’idea indiana della “degenerazione del tempo”, concetto per cui il corso della storia si configura come un processo di inesorabile declino. Secondo tale concezione, coloro che vivevano al tempo del Buddha erano evidentemente meno degeneri, più “spirituali” della massa corrotta dell’umanità dell’epoca contemporanea.
Di tanto in tanto, peraltro, tali concezioni furono messe in discussione. Le porte dell’illuminazione furono spalancate a coloro che ne erano esclusi a causa delle restrizioni e dei dogmi imposti da un’élite privilegiata. Laici, donne, incolti, i diseredati, i senza potere, furono invitati a gustare da sé la libertà del dharma. L’illuminazione non rappresentava un fine remoto da attingere in una vita futura. No: il risveglio era proprio qui, nel presente, dischiuso nella mente in questo preciso momento.
In sintesi, la questione essenziale che i buddhisti hanno avuto davanti a loro fin dall’inizio è stata la seguente: il risveglio è molto vicino oppure è assai distante? È facilmente accessibile, o lo si può conseguire soltanto mediante uno strenuo sforzo? Se l’enfasi è posta sulla sua prossimità e facilità d’accesso, c’è il pericolo di involgarirlo, di non conferirvi il valore e il significato che merita. Ma se si pone l’accento sulla sua distanza e sulla difficoltà di accedervi, v’è il pericolo di collocarlo fuori di portata, di trasformarlo in un’immagine di perfezione da venerare di lontano.
Ma non è forse tale questione in se stessa ad essere fuorviante? Non siamo forse ingannevolmente indotti dalla sua formulazione in chiave di alternativa logica (“o…o”) a ritenere che soltanto un’opzione delle due possa essere vera? Non sarebbe forse più appropriata, in questo caso, una logica ambivalente che le includa entrambe? Il risveglio è certamente vicino, e al contempo richiede uno strenuo sforzo. Il risveglio è certamente assai distante, e al tempo stesso facilmente accessibile.
(Da: Stephen Batchelor, “Buddhismo senza fede”)
– Stephen Batchelor (amazon)
– Stephen Batchelor (macrolibrarsi)
– https://it.wikipedia.org/wiki/Stephen_Batchelor
– Fonte