Tutti conosciamo, credo, il piacere che si prova nel mettere pace nel nostro dolore.
Il perdono è un modo per non perpetuare il dolore.
La maggior parte di noi lo sa e allora perché non lo facciamo?
Perché ci aggrappiamo così strettamente al nostro dolore?
Forse perché pensiamo che se non sentissimo più il dolore potremmo dimenticare il danno che abbiamo subito e che dunque potrebbe ripetersi.
Se siamo stati noi invece a causare del male ad altri ci teniamo il nostro dolore, così da non correre il rischio di ripetere ciò che abbiamo fatto.
A volte ci teniamo stretti al dolore per punirci ed è molto utile distinguere fra le lezioni che abbiamo appreso da una certa esperienza e, invece, il contrarci, il trattenere la tensione che creiamo intorno all’esperienza.
Anche perché forse confondiamo il perdono con il dimenticare: perdonare non ha nulla a che vedere con il dimenticare. Confondiamo il perdono con il condonare le azioni sbagliate, ma il perdonare non ha nulla a che vedere con il condonare le azioni dannose e nemmeno con il perdonarle.
Secondo me, il perdonare riguarda il perdonare colui che ha commesso l’azione, non l’azione.
Credo che il perdono sia un po’ come se dopo aver tenuto a lungo in mano un tizzone ardente poi decidessimo di posarlo: questo è l’atto del perdonare.
Ci sono tante proibizioni intorno a questa azione: vogliamo che l’altro paghi per quello che ha fatto, vogliamo giustizia prima di perdonare, vogliamo che l’altro soffra come noi, prima di perdonare.
Ma il perdono non ha a che vedere con la giustizia e neanche con la riconciliazione, ma solo con il posare, con il mettere giù il tizzone ardente.
– Frank Ostasesky –
Frank Ostaseski, insegnante, direttore e fondatore del Zen Hospice Project di San Francisco, capostipite di una serie di strutture simili in tutti gli States e in Europa, ha insegnato a migliaia di americani ed europei la pratica della cura compassionevole …
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