Quel lembo estremo dove emerge l’avanguardia evolutiva dell’umanità è un luogo piuttosto solitario. Quanti, infatti, vogliono spingersi là dove la folla si assottiglia, quanti cercano di raggiungere le potenzialità che si stanno appena delineando all’orizzonte del futuro? Quanti hanno il coraggio di porre le domande che aprono le porte del domani? I pionieri della coscienza non sono mai stati numerosi. Questo sembra essere il modo di procedere dell’evoluzione. Ma se il passato ha qualcosa da insegnarci è forse proprio che sono stati quei pochi individui avventurosi a fare la differenza. “In questo momento della storia abbiamo bisogno di un manipolo devoto di non conformisti che abbiano realizzato la loro trasformazione”, dichiarò circa mezzo secolo fa Martin Luther King Jr. E questo è certamente vero anche per noi, oggi. Come lui aveva capito, i cambiamenti radicali avvengono “non grazie all’adattamento compiacente della maggioranza conformista, ma grazie al disadattamento creativo della minoranza non conformista”. Questa è la sfida spirituale che attende ognuno di noi, la sfida lanciata da un futuro che dipende realmente dalla trasformazione di ciascuno di noi – una trasformazione che non può più essere rimandata. Per questo motivo la rivista What Is Enlightment (WIE) è impegnata a trovare quelle voci d’avanguardia per porre loro le domande che contano, favorire il loro incontro, promuovere il dialogo.
Negli ultimi numeri le potenzialità intrinseche di questa ricerca si sono brillantemente realizzate nella serie di dialoghi tra “il guru e il pandit”- Andrew Cohen e Ken Wilber. [In sanscrito “pandit” indica uno studioso molto competente nella conoscenza della saggezza spirituale.] Cohen, fondatore di WIE, come molti nostri lettori sanno, è un maestro spirituale che si dedica con impegno e dedizione alle pratiche concrete della trasformazione. Wilber può forse essere definito semplicemente il filosofo integrale per eccellenza – architetto di una “teoria del tutto”, elegante e in continuo divenire, che propone una sintesi senza precedenti della saggezza dell’intera umanità. Uniti dalla passione per un futuro possibile e dalla stessa vitale insofferenza verso tutte le vacche sacre, questi due pensatori indipendenti, ogni volta che si incontrano, spingono il discorso spirituale e filosofico verso nuovi orizzonti. In questo quarto dialogo, il guru e il pandit, esplorano la difficile situazione morale dei nostri tempi, gettano luce sulle insidie di quel panorama postmoderno in cui ci troviamo e sfidano tutti noi a impegnarci nella creazione di una morale nuova per un mondo nuovo.
A.C. Quello che vorrei esplorare oggi con te è la difficile situazione morale del nostro tempo e come questo sia collegato alle nostre aspirazioni spirituali.
K.W. Sembra interessante.
A.C. Qui, in Occidente, all’inizio del XXI secolo, vediamo che c’è una mancanza profonda di orientamento morale, non solo per noi della generazione del baby boom, ma anche per le generazioni successive. E penso che questa sia una questione cruciale che tutti noi, interessati come siamo allo sviluppo, alla trasformazione e all’illuminazione, abbiamo bisogno di approfondire.
Siamo tutti venuti al mondo nel contesto culturale postmoderno – un’epoca in cui per le nostre esistenze non è disponibile un quadro di riferimento tradizionale in campo morale, etico, filosofico e spirituale. Di fatto, noi siamo entrati in scena quando si stava consumando il rigetto delle vecchie strutture. E, in larga misura, noi ci siamo liberati da esse, ma finora non abbiamo trovato niente con cui rimpiazzarle. La nostra generazione e le successive hanno sperimentato una libertà così grande – a livello personale, filosofico, politico, religioso – come non era mai accaduto a nessun gruppo di persone in nessun luogo del pianeta. Non ci sono mai state tante persone che abbiano goduto di una tale incredibile libertà di fare esperienza – di pensare quello che vogliono, di fare quello che vogliono e di dire quello che vogliono.
Ma credo che sia questa la questione cruciale che dobbiamo analizzare: l’essere umano avrebbe dovuto possedere un grado di maturità straordinariamente elevato per poter gestire questo tipo di libertà che molti di noi, invece, hanno ottenuto solo per il fatto di essere nati in una determinata epoca. E siamo in molti a non aver fatto buon uso di quella libertà, proprio perché non avevamo la maturità sufficiente. Viviamo, quindi, in un’epoca incredibile in cui il più numeroso gruppo di individui al più alto livello evolutivo si trova in una fase di transizione. Il vecchio è stato respinto, ma non abbiamo ancora trovato una nuova cornice, un nuovo contesto morale, etico, filosofico e spirituale in cui vivere le nostre vite – un quadro di riferimento, insomma, che ci renda capaci di gestire la libertà che abbiamo ricevuto e che ci aiuti a dare significato alla nostra esperienza.
Molti di noi hanno cercato risposta a questa mancanza di riferimenti nelle nostre vite rivolgendosi alla filosofia orientale e alle sue promesse di una coscienza più elevata. Il risultato è stato che molti hanno conosciuto stati più elevati, hanno intravisto la consapevolezza non duale, hanno sperimentato momenti di illuminazione. Come hai detto tu stesso molte volte, l’accadere di intensi episodi spirituali come questi hanno un impatto molto forte sull’anima, specialmente se si tratta di esperienze davvero profonde. Ma, come abbiamo discusso in passato, l’esperienza in sé e per sé non è la cosa più importante. Ciò che conta è come interpretiamo quell’esperienza.
K.W. Giusto. Ciò che importa è il contesto interpretativo nel quale l’esperienza avviene.
A.C. Siamo qui, nell’America postmoderna, immersi fino al collo nella cultura del narcisismo, una cultura priva di un autentico quadro di riferimento morale che permetta di fare distinzioni di valori. Cosa succede quando, in questa situazione, le persone hanno un’esperienza di illuminazione? Facciamo l’ipotesi che assaporino la non dualità, intravedano il puro vuoto, siano inondati dalla pienezza, intuiscano che tutto è Uno e Uno è tutto. Fanno esperienza della verità al di là del bene e del male, al di là degli opposti. Ma come quell’esperienza straordinaria li aiuterà a tenere la rotta nel complesso sistema del mondo in perenne evoluzione e in perenne cambiamento di cui tutti siamo parte?
K.W. In altri termini, se la verità ultima è al di là del bene e del male, come procedere nel mondo del bene e del male?
A.C. Esatto. Questo è ciò che è accaduto a moltissimi di noi e credo accadrà, naturalmente, anche alle generazioni più giovani, se qualcosa non comincia a cambiare. Quando abbiamo avuto queste esperienze di illuminazione, quando abbiamo conosciuto la non dualità, abbiamo concluso: “Oh, la verità ultima è oltre le differenze, oltre il bene e il male”. Questo è ciò che le nostre più profonde esperienze spirituali ci rivelano. Ma poiché avvengono in un contesto culturale che ha molte difficoltà a operare distinzioni di valore, queste esperienze finiscono per mancare di qualsiasi peso morale e, quindi, mancano del potere di creare un vero quadro di riferimento morale per le nostre vite.
K.W. Finiscono per rafforzare il narcisismo culturale postmoderno che io chiamo “boomeritis” – è grottesco.
[ I “boomeritis” sono caratterizzati da una “strana mescolanza di grande intelligenza e narcisismo autocentrato”. E’ un termine utilizzato da Wilber per quella malattia culturale e psicologica che è tipica della generazione del baby boom. Come prima generazione a sviluppare la visione del mondo multiculturale e ugualitaria, i “boomers” hanno creato quel contesto postmoderno in cui le credenze e le libertà dell’individuo riscuotono il massimo rispetto, spesso in modo indiscriminato, offrendo in questo modo un sicuro rifugio all’egotismo e all’autoindulgenza.]
A.C. Questo è il punto in questione. In passato, quando si perseguivano queste esperienze in un contesto tradizionale premoderno, esisteva già un quadro di riferimento morale, etico, filosofico e spirituale molto saldo che indicava come interpretare quelle esperienze. Oggi, all’inizio del XXI secolo, poiché non abbiamo creato nuove mappe, c’è confusione su cosa sia in realtà il contesto morale, etico e filosofico in cui inquadrare le esperienze spirituali più elevate. Perciò, come hai detto tu, succede che le esperienze di illuminazione rafforzino inavvertitamente la piaga del narcisismo “boomeritis”.
K.W. Sì. Relativismo dilagante, pluralismo dilagante, incapacità di operare scelte – tutto ciò si ritrova rafforzato per le ragioni sbagliate, e sembra persino avere l’approvazione del Dharma di Buddha!
A.C. Penso che sia questa la ragione per cui molte persone si sentano profondamente confuse circa le esperienze degli stati più elevati.
K.W. Sì, sono d’accordo. E sono profondamente d’accordo con tutto quello che hai affermato prima, cioè, riassumendo in modo un po’ rozzo, da un lato c’è il satori (il risveglio) e dall’altro c’è il modo in cui tu interpreti il satori o le tua esperienze. Quale contesto interpretativo possediamo per contenere quelle esperienze? Perché, dopotutto, possiamo sentire di essere uno con ogni cosa, e va bene – in un senso molto profondo questa è la nostra condizione sempre presente e il satori, il kensho, il risveglio sono il riconoscimento di questo stato sempre presente – ma quando riconosciamo questo, come lo integriamo? Charles Manson disse: “Se tutto è uno, niente è sbagliato”. Allora, è così che interpretiamo il nostro satori?
A.C. Alcuni maestri affermano cose di questo genere.
K.W. Questo è esattamente il problema. Quindi il mio approccio generale – e su questo io e te condividiamo un punto di vista simile – è che noi vogliamo la realizzazione più una sua interpretazione integrale. Quasi sempre, quando io e te dialoghiamo, ritorniamo su questo punto – la straordinaria importanza del contesto, dell’interpretazione in cui l’esperienza è inserita. Perché, per quanto queste esperienze siano rare e preziose, se il loro dispiegarsi è inadeguato, possono essere in molti casi più dannose che benefiche.
A.C. Sì. Quindi, dobbiamo riconoscere che l’esperienza spirituale da sola non basta. Infatti, il contesto dell’esperienza personale per la nostra generazione è il narcisismo, un contesto psicologico personale in cui semplicemente non c’è nessun imperativo morale. E molte persone che insegnano queste cose sono il prodotto della nostra generazione e, dunque, sono essi stessi bloccati in quella posizione. Se, invece, sono Orientali, di solito, fanno riferimento a un contesto culturale premoderno, con una visione del mondo morale che non ha quasi niente da spartire con il mondo postmoderno del XXI secolo in cui viviamo.
K.W. E spesso sono anche un po’ ingenui – presumono che noi condividiamo il loro stesso retroterra culturale e poi rimangono scioccati quando le cose non vanno come si aspettavano.
La bussola morale rotta
K.W. Un altro aspetto importante su cui soffermarsi è questo: cosa significa giudizio morale, specialmente in quest’epoca postmoderna – l’epoca di quella che io chiamo “follia aprospettica”, cioè l’epoca del pluralismo e relativismo dilaganti, dove è proibito affermare che una cosa sia migliore o peggiore di un’altra. Le tradizioni sono abbastanza chiare. Ci sono tre pilastri che sostengono la crescita e lo sviluppo spirituali e sono: sila, dhyana, e prajna. Sila è il fondamento morale, il fondamento etico, è il numero uno; poi dhyana, la meditazione e, quindi, prajna, il risveglio o la realizzazione. La sventura di cui ho parlato, la sventura della nostra generazione è che abbiamo finito col pensare che siamo moralmente buoni se non diamo giudizi. Ma questo è precisamente l’errore. Siamo moralmente buoni se diamo il giusto tipo di giudizio. E dobbiamo imparare come dare giudizi saggi, in modo da prendere decisioni morali. Invece, poiché comprensibilmente non vogliamo emarginare nessuno né giudicare ingiustamente, quello che facciamo è dire: non giudichiamo affatto. Quindi, ci teniamo a distanza senza avere un orientamento morale, senza giudizi, senza saggezza che discrimina, e tutta la faccenda va in malora a causa di quest’atteggiamento. Quindi, se mentre stai dicendo che niente è migliore o peggiore di qualcos’altro anche sul piano relativo, hai un’esperienza di satori, di kensho o di unità, essa rinforza la tua bussola morale rotta. E questa bussola morale in pezzi unita alla tua realizzazione è quello che chiami spiritualità.
A.C. E’ un punto molto importante e profondo.
K.W. Oh, è un incubo.
A.C. Questo è un punto che ho cercato di sottolineare per anni – cioè che il satori può essere un evento autoevolutivo, ma può anche non esserlo, se avviene in un contesto etico, morale e filosofico non appropriato. In questo caso può addirittura ritardare o arrestare lo sviluppo e la crescita.
K.W. Sì, questa possibilità è reale – a meno che il satori non sia parte di una pratica trasformativa costante, e questo significa una pratica integrale. Infatti, senza un contesto, un’interpretazione o una comprensione adeguati, quell’esperienza finisce per immobilizzarti al livello in cui ti trovi.
A.C. Precisamente.
K.W. Devi stare molto attento a questo. Abbiamo, infatti, uno stuolo di cialtroni semi-illuminati che sono rimasti inchiodati alla loro cialtroneria quando hanno fatto l’esperienza dell’unità. Quell’esperienza porta con sé una grande sicurezza, una specie di fondamento incrollabile – è tutto questo è magnifico! E’ un’apertura verso la comprensione di questa condizione sempre presente, letteralmente assoluta. Ma c’è anche la condizione relativa, e gli esseri umani sono un misto di vuoto radicale e di forma relativa. Le tradizioni sono assolutamente chiare sul fatto che c’è la verità assoluta e c’è la verità relativa e dobbiamo onorarle entrambe.
A.C. Giusto.
K.W. Quindi la verità assoluta è al di là del bene e del male, ma la verità relativa contempla il bene e il male. E, nel mondo relativo, si suppone che noi scegliamo il bene e rifiutiamo il male. Buddha è stato molto chiaro su questo punto. Nel mondo assoluto trascendiamo entrambi. Quello che noi abbiamo fatto è stato confondere le due verità. Pensiamo che, poiché l’assoluto è al di là del bene e del male, allora nel mondo relativo non dobbiamo dare nessun giudizio. E questo è già capitolare di fronte all’azione immorale nel mondo relativo. Stiamo già rafforzando l’azione immorale quando facciamo questo.
A.C. E’ vero. E questo succede in una coscienza dove il narcisismo – l’ossessione egoica e la preoccupazione per se stessi – è probabilmente arrivata a un livello senza precedenti nella storia umana.
K.W. Il narcisismo è l’aspetto preoccupante della faccenda. Potrebbe anche essere l’aspetto peggiore, perché, come abbiamo discusso, quando le persone dicono “Non devi esprimere nessun giudizio”, quello che intendono, in realtà, è: “Nessuno può giudicare cattive, sbagliate o inadeguate le mie azioni egoiche e autocentrate”. E questo per l’ego è l’estremo sicuro riparo per resistere alla realizzazione spirituale.
A.C. Giusto. Il narcisismo estremo è troppo spesso l’unico orientamento morale in base al quale, a conti fatti, noi formuliamo i nostri giudizi.
K.W. Possiamo fare riferimento allo schema, abbastanza semplice, dello sviluppo morale umano elaborato da Lawrence Kohlberg. Kohlberg ha scoperto, attraverso un’ampia ricerca, che gli esseri umani attraversano tre grandi stadi di sviluppo o di evoluzione morale. Essi sono chiamati preconvenzionale, convenzionale e postconvenzionale, o egocentrico, etnocentrico e mondocentrico. Per fare un esempio, un neonato non ha la capacità di prendere decisioni in modo articolato – è egocentrico . “E’ giusto ciò che è giusto per me, e al diavolo tutti gli altri”. Questa è la classica posizione narcisista. Poi il bambino cresce ed entra in un gruppo di pari: adesso “è giusto ciò che è giusto per il mio gruppo” – questo è etnocentrico. Certo, ‘etnocentrico’ è diventato, ovviamente, un brutto termine, ma comunque rappresenta uno spostamento in avanti da “è giusto quello che dico io” a “ è giusto quello che dice il gruppo”. Continuando nella loro crescita e sviluppo, gli individui passano dal livello etnocentrico al livello mondocentrico. Cercano di giudicare le persone senza pregiudizi di razza, colore, credo, sesso, ecc. Cercano di rendere i loro giudizi più imparziali, più equi e più compassionevoli. Questi stadi emergono in un ordine che non può essere invertito e ognuno è più elevato e più comprensivo dei precedenti. Ognuno è una dimensione più ampia di attenzione, sollecitudine e responsabilità.
Ora, come si diceva prima, il problema è che, anche se sei allo stadio di sviluppo mondocentrico ma sei prigioniero del fraintendimento pluralistico postmoderno per cui niente è migliore o peggiore di qualcos’altro, allora sei esposto all’invasione egocentrica. In altri termini, se niente è più elevato o meno elevato nella scala dei valori morali, qualunque cosa io faccia, è giusta. Non c’è nessuna sfida per migliorare quello che sto facendo. Restiamo senza motivazione. Questa è una bussola morale a pezzi, nel senso peggiore del termine, ed è ciò che caratterizza l’orientamento culturale creativo, il pluralismo dilagante e il relativismo dilagante. Si tratta di qualcosa che è, inoltre, intrinsecamente autocontraddittorio, perché, quando si applica questo pluralismo che pretende che non ci siano gerarchie, si sta formulando un giudizio gerarchico – si pretende, cioè, che quel giudizio sia migliore degli altri. Questo è, dunque, il tipo di autoinganno cui si dà il nome di moralità nella nostra cultura.
A.C. E’ chiamata moralità più elevata!
K.W. E’ chiamata moralità più elevata. Dunque, quello che cerchiamo di fare, in un certo senso, è dire: “Sì, utilizzare forme di giudizio meno elevate, giudicare le persone sulla base di criteri etnocentrici – è sbagliato. Dobbiamo sforzarci di raggiungere lo stadio di sviluppo più elevato, cioè il postconvenzionale o mondocentrico.” Questo porta già verso una comprensione morale integrale che è essa stessa evolutiva. E questo, penso che tu e io siamo d’accordo, è sila, il fondamento morale, sul quale poggiano la meditazione e la realizzazione.
A.C. Sì, è così.
K.W. Senza questo fondamento morale, non otterremo né la giusta meditazione né il giusto risveglio. Possiamo avere un repentino satori, ma rischia di degenerare in una verità espressiva che non è altro che autopromozione egocentrica o narcisistica. Questa è una catastrofe assoluta che molte volte, nella nostra epoca, è contrabbandata come spiritualità. E’ quello di cui parlavamo prima, un’esperienza dell’assoluto può rafforzare le inclinazione narcisistiche se non abbiamo questo contesto morale in cui contenerle.
Il grande disegno
A.C. Nella nostra cultura del narcisismo l’attenzione della maggior parte delle persone, per quanto riguarda emozioni e sentimenti, è concentrata sullo stato di autoconsapevolezza egoica. Quando è così, è praticamente impossibile accogliere l’idea di un più vasto contesto morale, etico, filosofico e spirituale che esista al di fuori del campo strettamente soggettivo di esperienza dell’individuo. Se qualcuno è intellettualmente sofisticato e con un alto sviluppo cognitivo, ha la capacità di riconoscere queste verità più ampie, ma a causa del livello evolutivo in cui si trova, sarà probabilmente difficile avere una connessione emozionale diretta con quelle verità. E senza una connessione emozionale queste verità non avranno un gran peso dal punto di vista morale. Ho scoperto questo difficile aspetto del cammino che riguarda la trasformazione: a meno che una verità – sia assoluta che relativa – non abbia questo peso morale, il suo potere di suscitare concretamente qualsiasi trasformazione permanente o sviluppo evolutivo sarà drasticamente ridotto.
K.W. Sono con te su tutta la linea.
A.C. Dobbiamo essere collegati emozionalmente con la verità, sia essa assoluta o relativa. La mancanza di questo tipo di sviluppo è come una malattia nella nostra generazione – posso vederla in molti dei miei studenti. Quello che cerco di aiutarli a sviluppare è la capacità emozionale. Magari essi hanno avuto una profonda esperienza o hanno riconosciuto la verità a livello assoluto, ma a causa del loro enorme investimento nel narcisismo, in realtà non sono veramente in connessione emozionale con essa. La mia esperienza è che, finché non lo saranno, gli individui non cambieranno mai in modo davvero significativo.
K.W. Come affronti questo problema con i tuoi studenti?
A.C. Oh, Dio mio!
K.W. Scusa se tocco questo aspetto così entusiasmante e piacevole… ma vorrei sapere come gestisci questa riluttanza, questa mancanza di connessione.
A.C. …vediamo, cercando di spingere le persone a confrontarsi con il GRANDE disegno. Cercando di portarle ad affrontare il loro rifiuto di assumersi la responsabilità di quella verità più ampia che hanno riconosciuto e che li riguarda in prima persona – verità che, una volta riconosciuta, diventa il contesto morale dell’esperienza spirituale.
Vedi, il grande disegno di cui parlo è il contesto evolutivo che, ne sono convinto, è il fattore più fondamentale per risvegliarsi a un nuovo orientamento morale adatto ai nostri tempi. Quando scopriamo questo contesto evolutivo e riconosciamo quale importante ruolo potrebbe giocare la nostra trasformazione individuale e collettiva nel più vasto disegno delle cose, allora una coscienza più ampia si risveglia dentro di noi. E se abbiamo il coraggio e l’audacia di fronteggiare questo progetto più vasto, all’improvviso quello che facciamo e perché lo facciamo assume delle importanti implicazioni etiche, filosofiche e spirituali. Esiste un contesto molto reale e decisamente esigente nel quale la nostra presenza qui trova la sua collocazione. Le scelte che facciamo e le ragioni per cui le facciamo assumono improvvisamente un incredibile significato, e non solo per noi stessi.
Dove è finito il karma
A.C. I tempi sono davvero cambiati. Una volta, nell’epoca premoderna, il contesto in cui la ricerca dell’illuminazione si collocava era la comprensione che la nostra presenza e la nostra partecipazione al sistema mondo erano parte del disegno karmico.
K.W. Sì. Sembra proprio che il karma si sia dileguato!
A.C. E’ davvero svanito. Nell’epoca premoderna, c’era la sana paura dell’immoralità e del peccato. In Oriente, questo significava cattivo karma e, quindi, dover patire a causa di una terribile rinascita. In Occidente, significava andare all’inferno. Questo contesto karmico era la versione orientale di “Se sei buono vai in paradiso, se sei cattivo vai all’inferno”. Ma nel nostro contesto postmoderno, ci siamo liberati da queste visioni tradizionali e, poiché dobbiamo ancora inventarne di nuove, manchiamo di imperativi morali. Non siamo spaventati dalla minaccia dell’inferno e non siamo preoccupati dalle spiacevoli conseguenze karmiche delle nostre scelte attuali.
K.W. Già! Un tempo era difficile sbarazzarsi del karma. Ora, è sufficiente nascere boomers. Non abbiamo più karma. Non ci crediamo più.
A.C. Se solo fosse così semplice! Ma la questione è che, quando qualcuno ha visto il grande disegno, ne ha avuto un’esperienza diretta, e lo ha riconosciuto, gli si impone, allora, l’obbligo naturale di sforzarsi di vivere a un più alto livello, di manifestare nel mondo, almeno in una certa misura, quello che ha visto. E se quella persona rifiuta di impegnarsi, malgrado la sua realizzazione – se insiste per ragioni egoiche a evitare le implicazioni dell’esperienza che gli ha svelato le sue potenzialità più elevate – allora inizia a creare un’enorme quantità di karma. Il karma, per come io lo comprendo, è il fardello emozionale e psicologico accumulato, fatto di paura, dubbi, inerzia, egoismo, che ci imprigiona senza fine nella melma della delusione e della semicoscienza. In realtà, strettamente connesso alla realizzazione spirituale, c’è un imperativo morale. Non è una passeggiata… ma quando troviamo il coraggio di abbracciare la totalità della nostra situazione karmica, avviene un’evoluzione reale in tempo reale. E, ancora più importante, quando ci sforziamo di comprendere la nostra situazione karmica alla luce del grande disegno, del contesto evolutivo, iniziamo a creare il tessuto morale necessario per lo sviluppo spirituale postmoderno.
K.W. Sì, certo. Ma solo se la gente ascolterà.
Un dovere evolutivo
A.C. Come dicevamo prima, una persona può aver sviluppato la capacità cognitiva che gli permette di apprezzare una prospettiva genuinamente integrale e di riconoscere, a livello intellettuale, la necessità di un contesto morale evolutivo, ma, a livello emozionale può non aver superato la posizione postmoderna pluralistica e narcisistica. E, personalmente, credo che questo sia ciò che molti pensatori all’avanguardia, inclusi quelli che sono entusiasti del tuo lavoro, hanno bisogno di capire. Quando qualcuno ha un autentico risveglio e riconosce il contesto evolutivo, scopre, allora, un senso di urgenza. Spesso, quando io e te dialoghiamo, al di sotto della tua chiarezza, traspare questo tipo di urgenza, posso coglierla – è una passione che grida: E’ necessario svegliarsi!
K.W. E’ così.
A.C. Questa urgenza è sentita a livello emozionale. E crea una sorta di imperativo, quasi un “devi”. Oh, mio Dio…!
K.W. Certo, se hai un orientamento morale sei autorizzato ad avere un “devi”, questo è il fatto. E sei autorizzato ad averlo in modo consapevole. Anche i pluralisti hanno un “devi”, solo che non lo ammettono.
A.C. Il “devi” che emerge quando ci risvegliamo al contesto evolutivo è l’imperativo morale dello sviluppo stesso. In altri termini, il riconoscimento che la nostra stessa evoluzione, in quanto risveglio dell’essere umano, è un dovere morale, non un lusso. E questo dovere implica usare il nostro potere, datoci da Dio, di operare scelte personali per catalizzare in modo coerente la trasformazione che sta avvenendo, non solo a nostro vantaggio, ma a vantaggio dell’evoluzione della coscienza stessa.
K.W. Assolutamente. E dici che anche le persone che utilizzano il mio lavoro hanno bisogno di capire questo. Condivido pienamente. Credo che tu e io siamo d’accordo che la gente fa un cattivo uso del mio lavoro, se non coglie il senso del dispiegarsi dello sviluppo morale ed evolutivo.
A.C. Precisamente.
K.W. E, come stavi dicendo, molte persone comprendono a livello cognitivo la visione integrale mondocentrica, ma, poiché vengono da questo vischioso retroterra pluralistico della generazione del baby boom, la loro comprensione cognitiva è in realtà infettata da residui egocentrici. Quindi, essi non vivono all’altezza della loro comprensione cognitiva. E anche se ne discutono, stanno in realtà sabotando la visione integrale.
A.C. O la loro potenzialità di manifestarla.
K.W. Esattamente. Questo diventa il vero problema, perché abbiamo un gran numero di persone che parlano di visione integrale, ma che in realtà non la stanno mettendo in pratica. Il loro centro di gravità morale non è così elevato come il centro cognitivo, quindi non si dà quell’urgenza di cui parlavi. Non esprimono nessuna passione. Anzi, sono terrorizzati dalla passione, perché passione per loro significa che stai prendendo posizione, stai giudicando che una cosa è migliore di un’altra. Naturalmente, il “sé sensibile” dei pluralisti dice: “Oh no, non posso dare giudizi”, e fondamentalmente questo inceppa l’intero processo della loro crescita e del loro sviluppo, perché non puoi essere appassionato a meno che non credi in una certa direzionalità…
A.C. …e nella sua giustezza.
K.W. Questa è anche la ragione per cui la gente è confusa. Nel mondo relativo, questi giudizi li esprimiamo, e sono sempre giudizi che manifestano un olismo e un’integralità crescenti. La ragione per cui mondocentrico è migliore, è più giusto di etnocentrico, è che mondocentrico è più ampio, più comprensivo, include di più – è una sollecitudine più grande, una coscienza più grande e una compassione più grande. Etnocentrico è migliore di egocentrico per la stessa ragione. Quindi, c’è un gradiente di migliore e più giusto nel mondo manifesto, e questo è ciò in cui ci dobbiamo impegnare con passione. Ma, come sai bene, si può farlo solo nel contesto dell’immensità del vuoto o della vasta imparzialità in cui tutto questo emerge momento dopo momento. Quindi, è necessario contenere entrambe le cose: il gusto non duale dell’uguaglianza dove tutto ciò che emerge è la perfetta manifestazione della perfezione ultima e il fatto che tra le cose che emergono alcune sono migliori di altre. Quindi, ci lasciamo coinvolgere con passione in questa direzionalità, ma solo in quanto manifestazione dell’assoluto nel mondo delle forme.
A.C. E questa è la vera non dualità.
K.W. Assolutamente. Tutto questo si inceppa quando la tua bussola morale si rompe, perché in qualche modo te ne stai lì, girando a vuoto, senza andare da nessuna parte, e pensi che questo sia la non dualità, pensi che questo sia sahaj o la coscienza dell’equanimità. Ma, in realtà, è una catastrofe. E’ la completa paralisi dell’azione nel mondo relativo dove ci si aspetta che tu dispieghi questa comprensione più alta e più profonda come il dovere e il dharma della tua realizzazione.
(Libera traduzione dall’inglese)
– Ken Wilber (macrolibrarsi)
– Ken Wilber (amazon)
– https://it.wikipedia.org/wiki/Ken_Wilber
– https://en.wikipedia.org/wiki/Andrew_Cohen_(spiritual_teacher)
Pubblicato con il permesso della rivista What is Enlightenment? – Feb-Apr. 2004, pag. 39-47.
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– Fonte: http://www.rebirthing-milano.it